L’edizione odierna de “La Repubblica” ha riportato un’intervista ad Enrico Variale dopo le accuse di lesioni e stalking dalla sua ex compagna.
«Lo so benissimo, ho fatto qualcosa che non può e non deve essere fatto. Mai». Per questo Enrico Varriale ha accettato di spiegare a Repubblica come sia stato possibile che un giornalista affermato, un personaggio pubblico abbia potuto — per citare il gip Monica Ciancio — durante una lite per gelosia, sbattere la propria compagna al muro e prenderla a calci.
Giacca marrone su camicia marrone a righe bianche, occhiali in tinta personalizzati con la scritta in corsivo “Varriale” sulla stanghetta destra, l’uomo parla, si accalora, argomenta. «Lo so che è successo qualcosa che non doveva succedere — ripete — O, meglio, che ho fatto qualcosa che non dovevo fare. Ma so anche che non sono il mostro di Milwaukee e penso che sia giusto dire come sono andati davvero i fatti».
I fatti sono andati come ha ricostruito il giudice, no? «Il gip ha accolto la tesi della Signora», la chiamerà sempre così di qui in avanti. «E per questo motivo, insieme ai miei avvocati Fabio Lattanzi e Stefano Maranella, ho deciso di affrontare il processo con rito ordinario. Così avrò modo di raccontare l’intera storia in un dibattimento».
Parliamo dell’“intera storia”. «Il 27 settembre mi bussano a casa due poliziotti. Mi notificano il provvedimento del gip. Solo in quel momento ho saputo dell’inchiesta. Due giorni dopo la storia era tutta sui giornali. Una gogna che mi ha sconquassato».
Il problema però non è quello che le è successo il 27 settembre, ma quello che è successo alla sua compagna il 6 agosto. «Prima mi permetta di spiegare come siamo arrivati a quel giorno. Lei viveva a Pesaro col marito. Io ero un uomo libero, a Roma. Ho due figlie grandi ma mi sono separato da mia moglie tanto tempo fa. Con la Signora avevamo cominciato a frequentarci a novembre. Lei veniva a Roma, da me, una settimana sì e una no. Era “prigioniera” — diceva così — di un matrimonio inesistente. Piangeva al telefono, si sentiva in gabbia. Ritenevo la cosa umiliante per lei e per me, così le ho chiesto di scegliere, un rapporto saltuario non mi interessava. A maggio, come tappa intermedia aveva affittato una casa vicino alla mia. Però le ho detto: il 15 luglio dopo gli Europei o prendi una decisione o la finiamo. Non ebbi risposta. Il 29 luglio ci vediamo a Roma per decidere se fare qualche giorno di vacanza insieme in Costiera amalfitana. Quella sera lei si accorse che avevo cambiato password al computer — prima usavo il suo nome — ha dato di matto… e mi ha tirato il computer in faccia. Poi però abbiamo fatto pace e siamo partiti».
Il 6 agosto che cosa è successo? «Il 5 agosto a sera da Pesaro mi ha raggiunto di nuovo. Eravamo a casa, lei stava rifacendo il letto e mi ha provocato. Ha cominciato ad accennare alle mie avventure … ».
L’aveva tradita? «Dal 15 luglio ero un uomo libero. Prima l’ho rispettata, in ogni senso».
Che è successo, quindi? «La sera del 5 non sono caduto nelle provocazioni e me ne sono andato».
E il giorno dopo? «Di quel giorno voglio dire due cose. La prima: non le ho mai messo le mani al collo».
La sua compagna ha denunciato questo. «Al Gemelli le hanno fatto una prognosi, di cinque giorni…Un’abrasione alla base del collo…solo un’abrasione. La seconda cosa è che ci siamo colpiti tutti e due. Non l’ho picchiata. Non ho provato a strangolarla. È stato un litigio. Alla fine avevo l’occhio pesto, quello messo peggio ero io.
Lo hanno visto diverse persone, anche nei giorni successivi. Ma io non mi sono fatto refertare. Una colluttazione non è meno grave. È comunque diverso. Io non ho mai picchiato una donna. Sono della scuola che nemmeno con un fiore. Questo è stato il primo 25 novembre in cui non ho moderato o partecipato a qualche evento importante in difesa delle donne. Anzi. Mi consenta di esprimere la mia massima solidarietà alla collega Greta Beccaglia».
Ma cosa le è venuto in mente? Si è chiesto come sia stato possibile? «Stavamo litigando. Io parlavo lei chattava», mima il gesto. «Le chiedo di smettere. E una volta, e due e tre. Le tiro via il telefonino. Lei mi salta addosso. Non le ho mai messo le mani alla gola. Sono cose che non devono capitare. Non mi sono controllato. Ma non sono un violento, non sono uno stalker, non ho provato a strangolarla».
Ecco, lo stalking, il giudice l’accusa anche di aver “ossessivamente cercato” di contattare la sua ex. «Non sono uno stalker». I messaggi al telefonino…
«Dal sei agosto al 27 settembre, 43 messaggi. Eravamo abituati a scambiarcene trenta-quaranta al giorno. Se mi avesse detto “mi disturbi” sarei sparito, ma lei non rispondeva né mi ha bloccato. Per altro in quei 40 giorni, 25 sono stato fuori Roma».