L’edizione odierna di Tuttosport si sofferma sul caso scommesse.
Di fronte a temi delicati, quelli il cui giudizio richiederebbe prima un’attenta e approfondita analisi, spesso a palesarsi è una tendenza sempre più diffusa, specie dall’avvento dei social: quella di polarizzarsi.
Il dibattitto sul caso scommesse, infatti, si è sviluppato su due binari ben distinti: coloro che denunciano duramente la condotta dei giocatori coinvolti, promuovendone una squalifica esemplare; e chi invece percepisce questi ragazzi come vittime, dei pazienti malati, ludopatici in cerca di una qualche forma di redenzione. Non esiste una zona grigia, o almeno sembra così: malati indifesi da aiutare, o vili scommettitori, abituati a combattere la noia giocando con le grosse cifre di denaro di cui sono in possesso. Forse però, prima di azzardare qualsiasi forma di giudizio, potrebbe essere interessante approfondire quali siano i limiti e le peculiarità di questo termine di cui si è abusato tantissimo nei giorni scorsi: ludopatia. Stiamo parlando di uno dei disturbi mentali più diffusi nel nostro Paese. Secondo un recente studio dell’Istituto Superiore di Sanità, oggi sarebbero quasi due milioni gli italiani affetti da ludopatia. Tutto risiede, come sottolinea il dottor Zanalda, presidente della Società italiana di psichiatria forense, nel costante bisogno di giocare d’azzardo: «Quando il gioco va al di là del piacere, e quindi non è più un hobby o un momento che il soggetto riesce a ricavarsi e gestirsi, ma al contrario diventa un bisogno impellente, nonché l’unica forma di gratificazione, allora possiamo parlare di ludopatia. Chi ne soffre mette in costante repentaglio il proprio benessere economico e sociale, e non riesce a farne a meno».
Si tratta di un comportamento problematico persistente. Non esistono dunque i ludopatici occasionali. La diagnosi, infatti, può configurarsi solo nel momento in cui verranno rilevati, nell’arco di un anno, determinati comportamenti del soggetto, classificati all’interno del DSM-5 (il manuale diagnostico dei disordini mentali) come sintomatici. L’entità delle cifre scommesse, inoltre, non ha alcuna rilevanza nella diagnosi: «Per capire se un paziente sia ludopatico o meno – continua Zanalda – non è influente valutare quanto e con che frequenza scommetta. Ciò che occorre capire è quanto il gioco influenzi la sua esistenza, quanto sia radicato in lui il bisogno di scommettere». A questo punto, verrebbe da chiedersi se i coinvolti nel caso scommesse siano realmente tutti ludopatici, se insomma soddisfino questi criteri, o se al contrario, possano essere giudicati come meri scommettitori occasionali. Quel che è certo, in attesa di scoprire la squalifica che dovrà scontare Tonali, è che ai coinvolti una eventuale diagnosi di questo tipo possa fare comodo in chiave giuridica, poiché potrebbe comportare una riduzione della pena. «Il riconoscimento del disturbo – continua Zanalda – è la parte più difficile del percorso. Pochi riescono ad accettarlo, poiché hanno l’impressione di avere tutto sotto controllo».
Un po’ ambiguo, infatti, che ci si accorga della propria malattia solo dopo essere stati scoperti con il dito nella marmellata. Lasciando che siano i professionisti del settore a fare le dovute valutazioni, occorrere promuovere una cultura calcistica che sradichi il germe dell’azzardo dagli spogliatoi. Questi ragazzi, sempre più soli e abituati a rinchiudersi in sé stessi e nei propri smartphone, vanno aiutati a colmare i vuoti, a gestire positivamente il tempo libero e i propri soldi. La speranza è che lo spogliatoio, anzichè una sala giochi, rimanga sempre un luogo intimo, di proprietà esclusiva della squadra, del gruppo. Un posto in cui ci si confronta, in cui si possa crescere, imparando nella gioia e nella sofferenza dai più grandi, in nome di un cameratismo e una solidarietà sportiva, ormai sempre più rari.