L’edizione odierna di Tuttosport si sofferma sulla riforma della serie A che non si attuerà.
Alla fine le riforme non si faranno. E vivranno tutti felici e scontenti, perché piuttosto che cambiare davvero tutto quello che andrebbe cambiato, il calcio italiano si fa andare bene le cose come stanno, conservando l’opportunità di lamentarsene e auspicare una riforma.
Le riforme, a partire di quella dei campionati per ridurre il numero dei club professionistici, non si faranno perché non esiste una maggioranza che possa approvarle e non è politicamente possibile metterla insieme, perché ci sono troppi interessi individuali completamente incompatibili fra di loro e risulta quasi comico pensare a una collettiva presa di coscienza dei problemi che spinga verso l’unione in un vero sistema.
Quindi, quello che succederà da qui a un mese, sarà sostanzialmente un teatrino dal quale potrebbe uscire qualche microscopico cambiamento e con il quale potrebbero riassestarsi le forze e modificarsi qualche coalizione. Ne è un esempio la fresca resurrezione dell’antica alleanza fra Juventus, Milan e Inter. Che potrebbe diventare significativa per le politiche della Serie A, qualora trovassero il modo di spaccare il granitico fronte lotitiano e creare nuovi equilibri. Le tre grandi italiane sono insieme anche nel chiedere con forza la riforma dei campionati, con il passaggio della Serie A da 20 a 18 squadre.
Ma, attenzione, quella è solo una delle riforme del pacchetto che il presidente federale Gabriele Gravina presenterà al Consiglio Federale dei primi di marzo e che contiene un ripensamento molto più profondo del sistema.
La diminuzione delle squadre, infatti, non può bastare a riportare sulla linea di galleggiamento economico il calcio italiano e la riforma Gravina prevede un meccanismo di paletti molto rigidi per l’ammissione al campionato riguardanti l’indebitamento dei club e i loro conti. E questo, per esempio, già spacca l’alleanza di Juventus, Milan e Inter, perché i nerazzurri storcono il naso. E non solo loro, perché sono molte le società che dovrebbero faticare (e non poco) per adeguarsi a parametri più severi di quelli attuali, assai laschi (anche nei controlli, visto che poi paga sempre una sola squadra, ma questa è un’altra storia).
D’altronde, quando Gravina ha ricordato ai presidenti della A che, nel 2025, quindi dopodomani, il calcio italiano dovrà onorare i pagamenti rinviati in periodo Covid (rivalutazioni dei beni d’impresa, ammortamenti e le perdite d’esercizio dal 2020 al 2022), quindi uno scherzo da 2 miliardi e 200 milioni, uno dei presidenti in sala ha commentato impassibile: «E vorrà dì che chiederemo n’artra proroga…». E, sì, è lo stesso presidente che in queste ore sta battagliando per far rientrare dalla finestra il decreto crescita che il Governo aveva accompagnato alla porta (e il ministro Abodi, ieri sera, commentava preoccupato: «Sarebbe un errore, troveremo altre forme di incentivazione»). E neanche di fronte ai 5,2 miliardi di debito consolidato che pesa sul sistema calcio, i presidenti sembrano essere preoccupati, come uno di loro ha spiegato sinteticamente a Gravina: «A noi non ci faranno mai fallire». Che, in fondo, è il nocciolo di tante questioni calcistiche italiane.
La riforma che verrà bocciata dal calcio italiano, dunque, conterrà un regolamento finanziario più rigoroso; un riequilibrio dei poteri fra le varie componenti del calcio, consentendo alla Serie A, locomotiva del sistema, di conservare un peso maggiore, ma unificando in un’unica Lega A, B e C (o al limite accorpando solo B e C), per ammortizzare i frequenti scontri fra le leghe; l’istituzionalizzazione delle seconde squadre; una diminuzione del potere politico degli arbitri e, sì, una diminuzione delle squadre che sarebbero 18 in A, 18 in B e 40 in C, divise in due gironi.