L’edizione odierna di Tuttosport si sofferma sul Livorno e il nuovo proprietario.
Il Livorno parla brasiliano. O meglio, franco-brasiliano. Il finanziere Joel Esciua, nato a San Paolo del Brasile nel 1964 da famiglia francese, residente a Londra, ha sottoscritto il preliminare di acquisto da Paolo Toccafondi della nuova società del Livorno, ripartita dall’Eccellenza un anno e mezzo fa, dopo la mancata iscrizione alla Serie D del Livorno di Aldo Spinelli (era retrocesso sul campo, ndr). Costo dell’operazione: circa 600 mila euro. Abbiamo intervistato Esciua, che parla un italiano fluente e grammaticalmente corretto, sulla bellissima terrazza che guarda il mare di un grand hotel a Livorno.
Iniziamo da lei. Chi è Joel Esciua? «Sono un uomo di affari con doppia cittadinanza, francese e brasiliana, che si occupa di finanza internazionale e in particolare dei mercati emergenti, quelli per intendersi dell’America Latina, dell’Europa dell’Est, dell’Asia e dell’Africa. Nel corso della mia esperienza professionale ho potuto allacciare solidi legami ed importanti rapporti con molteplici realtà. Mi piacciono le sfide. Le ho sempre cercate anche a livello professionale. Oltre che a Londra e in Brasile ho vissuto in Francia. Sono un grande appassionato di calcio e ritengo che adesso sia giunto il momento di accettare la sfida del football».
Perché l’Italia e perché il Livorno? «Amo il calcio italiano e ricordo il Livorno in Serie A e in Europa. Livorno, che ho avuto modo di conoscere ed apprezzare, è una città che ti coinvolge e che se la ami, devi amarla in tutto e per tutto, altrimenti non ci devi neppure andare. Di San Paolo, la città dove sono nato, in Brasile si dice ‘amala o lasciala’. Ecco, credo che questo detto ben si addica anche a Livorno, la cui storia sportiva, non solo nel calcio, è straordinaria e ben conosciuta a livello internazionale. Ha campioni in tutte le discipline e il calcio non fa eccezione. Il Livorno è il 25° club in assoluto nel ranking calcistico italiano».
Lei diverrà presidente del Livorno a partire dal 1° luglio con la squadra probabilmente ancora in Serie D. Che progetti ha? «Il mio piano è quinquennale e il mio obiettivo è riportare il Livorno prima nei professionisti e poi in Serie B. Questa squadra non può vivacchiare in D e neppure stare troppo in Serie C».
Che cosa l’ha convinta a prelevare la società amaranto? «Credo che ci siano le condizioni per far bene. Dobbiamo però partire per tempo e programmare subito la vittoria del prossimo campionato. E’ vero che molto, se non tutto, è ancora da costruire, ma la società, essendo di recente costituzione, è sana e senza debiti».
Ci può fare una qualche anticipazione su assetti societari, quadri tecnici e giocatori? «È prematuro. Posso solo dire che il binomio vincente deve essere costituito da un allenatore e da un ds affiatati ed almeno uno dei due deve aver avuto esperienza di vittorie nella categoria che faremo. Anche le cosiddette ‘bandiere’ sono importanti e in questo senso qualche nome l’ho già in mente».
Cosa si sente di dire ai tifosi del Livorno? «La scelta di prelevare il club è stata ponderata. Anche se la trattativa si è conclusa in modo abbastanza veloce, sono anni che seguo questa società, quindi tutto è stato pesato e riflettuto. Questo mi sento di dire. Ai tifosi chiedo anche la giusta fiducia che si deve dare a chi comincia un’opera non semplice. Ai giocatori amaranto, invece, chiedo di chiudere la stagione centrando i playoff per vincerli. Non si sa mai quello che può accadere. Agganciare la C quando quasi nessuno più ci crede, sarebbe un’impresa bellissima. Alla fine la gente si ricorda di come finisce il campionato e non delle sconfitte».
Acquisendo il Livorno lei entra nel calcio italiano. Cosa si aspetta? «Non mi aspetto nulla. L’Italia, nonostante abbia mancato la qualificazione agli ultimi due Mondiali, è un paese in cui il calcio ha un grande seguito. Tifo per la Nazionale azzurra fin dalla semifinale mondiale del 1970 allo stadio Azteca di Città del Messico, la partita del secolo, quella tra Italia e Germania Ovest che vincemmo ai supplementari. Nel 1994 ero al Rose Bowl di Pasadena per la finale mondiale tra Brasile e Italia. Anche in quell’occasione tifavo per l’Italia e piansi quando gli azzurri persero ai rigori».
Per concludere, come vede il movimento calcistico italiano? «Voglio leggere come un buon presagio il fatto che, pur con tutte le difficoltà, solo l’Italia ha sei squadre su ventiquattro nei quarti di finale delle tre competizioni continentali. Ciò vuol dire che il movimento è vivo».