L’edizione odierna de “La Gazzetta dello Sport” si sofferma sulla vicenda Manchester City finito nella bufera in Premier League attraverso un editoriale di Gianfranco Teotino.
Quindici anni fa, alla vigilia del cambio di proprietà, il Manchester City figurava al ventesimo posto nell’annuale classifica dei fatturati delle squadre europee, non vinceva un campionato da quarant’anni, una Coppa d’Inghilterra da 39 anni e una coppa europea da 38. Al termine della scorsa stagione è diventato il club calcistico più ricco del mondo, per la prima volta in testa nella classifica dei fatturati, con ricavi pari a 731 milioni di euro, e nel frattempo ha vinto 6 Premier League, 2 Coppe d’Inghilterra e 6 Coppe di Lega, senza tuttavia riuscire per ora a infrangere il tabù europeo. Vincere, si sa, aiuta a vincere e anche ad accrescere il proprio benessere economico, perché in questo modo aumenti il valore del brand e dei diritti connessi, non soltanto quelli televisivi, e attiri sempre più sponsor.
Per farlo devi essere bravo pure in campo, cosa però che risulta molto più facile se i tuoi proprietari, in questo caso un fondo sovrano, cioè praticamente uno Stato, gli Emirati Arabi Uniti, pompano nelle casse sociali un totale di 2 miliardi e 300 milioni di euro mal contati. Roba da far impallidire i Berlusconi e i Moratti dei tempi d’oro. Tutto regolare? Per l’Uefa no: infatti aveva condannato il City a due anni di esclusione dalle competizioni europee e a una multa di 30 milioni di euro. Per il Tas, il tribunale arbitrale dello sport, sì: ricorso accolto, un po’ per prescrizione e un po’ per insufficienza di prove, squalifica annullata e ammenda ridotta. Per la Premier League non si sa: un’indagine lunga quattro anni si è chiusa soltanto lunedì con la messa sotto accusa del club emiratino per le stesse violazioni, commesse fra il 2009 e il 2018, per le quali era stato punito dall’Uefa e prosciolto dal Tas. E pare ci vorranno altri mesi prima di arrivare a una nuova sentenza.
La verità è che la giustizia sportiva è un terreno minato. Nessuno sa con esattezza che cosa si può o non si può fare per rimanere all’interno di sistemi regolatori spesso vaghi, né a quali conseguenze si vada incontro in caso di infrazione. Si può assolutamente affermare che non vi è certezza del diritto. La prescrizione, per esempio, viene riconosciuta dal Tas ma non dalla Premier League. Allo stesso Tas si può ricorrere per i casi di doping o di verdetti di carattere transnazionale, ma non è possibile fare appello contro sanzioni disciplinari valide in un solo Paese, come nel caso della Juventus, senza l’assenso di chi ha deciso la condanna. Pensare di cancellare le specificità dei procedimenti sportivi e di offrire agli imputati le stesse identiche garanzie di un processo penale o civile è illusorio e probabilmente anche sbagliato: non ci sono né gli strumenti né i tempi per farlo senza bloccare lo svolgimento e la regolarità delle competizioni.
Resta il fatto che la vicenda Manchester City, così come la vicenda Juventus, segnala tutte le debolezze dell’ordinamento giudiziario sportivo attuale. Indizi e prove di colpevolezza derivano non dall’attività delle Procure sportive, ma dalle indagini della giustizia ordinaria o, addirittura, nel caso City, da inchieste giornalistiche o attività di hackeraggio. E, peggio ancora, nessun codice sportivo stabilisce con precisione quali pene corrispondano ai reati commessi. Se leggete gli specchietti pubblicati dalla stampa internazionale su “cosa rischia il Manchester City”, potete vedere che si va dall’ammonizione all’esclusioneda tutti i campionati del Regno (Unito). Come a dire, da una sgridata alla pena calcistica capitale. Così come non si capisce in che modo siano stati determinati i 15 punti di penalità della Juventus: perché non i 9 richiesti dall’accusa o non magari 2 o 30? Le motivazioni della sentenza non lo spiegano. Vale tutto. Così è una giustizia che non vale niente.