Sperandeo: «Io come Schillaci ci ha salvato la fame. Ho il rosanero nel cuore»
In un’intervista a La Repubblica, l’attore siciliano Tony Sperandeo, con 125 film e un David di Donatello alle spalle, riflette sulla sua carriera e sulla vita privata. Da venditore di detersivi a icona del cinema italiano, Sperandeo racconta i suoi inizi dietro il bancone di un negozio e la lunga strada percorsa per raggiungere il successo. Tra aneddoti personali, come l’amicizia con Gigi Burruano e Giovanni Alamia, e momenti di grande dolore, come la perdita della moglie, Sperandeo condivide una visione intima della sua vita, fatta di fede rosanero, legami familiari complessi e il desiderio di uscire dal cliché del “cattivo” nei film di mafia.
Il suo primo palco è stato dietro al bancone di un negozio. Tony Sperandeo, 125 film alle spalle e un David di Donatello per I cento passi, all’epoca aveva 25 anni, vendeva detersivi per 50 lire e ogni volta che poteva prendeva la chitarra e si metteva a strimpellare. «Come Totò Schillaci, nella vita ho fatto di tutto. E il successo me lo sono conquistato da solo», racconta seduto al bar davanti a una spremuta d’arancia.
La facevo più un tipo da whisky.
«Per la faccia da duro?».
No, per quell’episodio memorabile in cui cadde dal palco del Madison di piazza Don Bosco insieme a Gigi Burruano e a Giovanni Alamia.
«Le gocce di Novalgina, Burruano chiamava così il whisky. Eravamo così ubriachi che siamo andati a finire sul pubblico. Ma sono cambiato: ogni tanto mi concedo un po’ di vino e non fumo da 15 anni».
Praticamente, quello che si dice “un bravo cristiano”.
«A volte sgarro, ma prego ogni giorno».
In cos’altro crede?
«Nel Palermo, i colori rosanero sono la mia fede. Una volta a 11 anni me ne andai allo stadio senza dirlo a mio padre. Lui lo scoprì e mi diede uno schiaffo che ancora mi ricordo. Da quel momento, però, non ci siamo persi una partita insieme e nel ’78 feci anche l’inno del Palermo. Il calcio è stato un punto di riferimento: sono stato un uomo solo, la vita mi ha dato ma mi ha anche tolto moltissimo».
Le va di parlarne?
«Ho attraversato enormi dolori: mia moglie si tolse la vita a 32 anni e da quel momento non ho visto i miei figli per vent’anni, ma non fui io a volerlo. Quando sono tornati da me, c’ero: papà c’è sempre stato e lo ha dimostrato. Mio figlio Tony è gay, all’inizio non capivo ma è sangue del mio sangue e l’ho accettato così com’è. Ha grande stoffa come attore e ballerino, ma nel mondo dello spettacolo ci vuole anche un po’ di fortuna».
Lei ne ha avuta?
«Se ne avessi avuta di più, chissà dove sarei adesso».
Dove? Faccia uno sforzo di immaginazione.
«In America. Mi dicevano che ero il Robert De Niro italiano, ma non ho avuto il coraggio di partire perché non parlavo l’inglese».
Che rapporto aveva con Burruano?
«Ci chiamavamo cognati, eravamo sempre insieme. Aveva una grande testa. Mi introdusse nel teatro con La coltellata e io ricambiai portandolo nel cinema».
Con Alamia, invece?
«Ci siamo divertiti molto. Una volta a Roma, in piazza Pio XI, ci fermarono i carabinieri per controllare i documenti. “Sono Giovanni u pazzu”, fu la risposta di Alamia. Lui era quello discolo, io quello con la faccia da cattivo».
Non s’è stufato di essere l’eterno cattivo del cinema italiano?
«Mi hanno sempre detto che rappresento la sicilianità. In che modo, però? Coi film di mafia. Mi piacerebbe interpretare ruoli diversi e non parlare sempre e solo di mafia. Per questo, le sceneggiature mi sono messo a farle io. Preparo anche i monologhi durante le fiere di cibo siciliano a cui partecipo come testimonial in giro per l’Italia con A’ Vucciria street food. C’è ancora tempo».