L’edizione odierna de “Il Corriere dello Sport” si sofferma sul patron del Benevento, Vigorito che ha rilasciato una lunga intervista parlando del campionato di B.
Il vento è cambiato per il Benevento solo un anno fa in lotta per la terza promozione in A della sua storia e ora impelagato nella più complicata battaglia per evitare addirittura la C. Ma non ha nessuna voglia di rassegnarsi il patron della Strega, magnate dell’eolico che ha imparato a governare le forze avverse e le correnti gravitazionali sfavorevoli, anche quelle più inaspettate scatenatesi sull’Appennino sannita a “sua insaputa” e che rischiano di travolgere tutto. Pronto a pagare per gli errori compiuti, Oreste Vigorito chiede rispetto e lealtà.
La gara di Bari e la controversa direzione arbitrale di Piccinini, non l’unica in questa stagione, non hanno convinto, per la verità, non solo il patron giallorosso che, tuttavia, non si aggrappa agli alibi e non alimenta polemiche. L’occasione, però, è propizia per fare il punto sulla genesi di una crisi che si è aggravata, anche se a 7 giornate dalla fine con tanti scontri diretti da giocare sarebbe imperdonabile non crederci più. La salvezza è possibile e Stellone sta tentando di alimentarla. Ed è inequivocabile il messaggio che lancia don Oreste, come lo chiamano sotto la Dormiente del Sannio i tifosi che gli sono grati per i successi in 17 stagioni, 14 delle quali chiuse o con una promozione o con i playoff, traguardi che nessuno potrà cancellare. Neppure i critici più ostinati che preferirebbero il niente a un “padre-padrone” umano che continua a metterci la faccia e ha sempre pagato il conto. Senza questue e con orgoglio, lo stesso dei tifosi autentici che il presidente chiama a raccolta attorno al Benevento.
Presidente Vigorito, dalla mano sul cuore a Pisa ai patemi odierni: come è stato possibile precipitare così giù? «Ci sono stati errori. Io per primo ne ho fatti tanti. Quello più grande è non essere stato risoluto nel resettare il progetto e renderlo più sostenibile e congruo alle possibilità e all’interesse della città. Dopo quella gara all’Arena Garibaldi si era chiuso un ciclo. Eravamo partiti per fare un grosso rinnovamento. Ma non siamo riusciti a vendere calciatori che pesavano sull’organico e sul bilancio per liberare spazi e risorse. E abbiamo fatto acquisti che non hanno sempre funzionato. Come i veterani».
Insomma, il mix non è riuscito. «Purtroppo, no. E ciò ha generato l’attuale situazione. Aggravata dagli infortuni. Dieci/undici al mese non sono tollerabili. E abbiamo dovuto resettare in corsa lo staff sanitario. Avrei voluto cambiare tutto dopo aver perso la A in modo rocambolesco. Ma non ci sono riuscito. E’ la colpa che mi attribuisco. Altre non riesco a trovarne».
I contrasti con una parte dei tifosi l’hanno sorpresa? «Guardi, io ho provato a dialogare col popolo giallorosso dal primo giorno e mi auguro di poterlo ancora fare. Ma se su 8 mila abbonati, 4 mila non vengono allo stadio, faccio fatica a comprenderne le ragioni. So che il calcio è della gente. E senza la gente manca una componente fondamentale. Ma il saldo negativo lo pagano i presidenti e le norme attuali non aiutano l’equilibrio dei club».
Tante le cessioni eccellenti. «Molti hanno abbandonato la nave. Ma chi è andato via non ha mai spiegato perché. Lapadula, Barba, Forte averli persi ci ha penalizzati. Qualcosa s’era rotto. Ma non con me».
Tre allenatori in una stagione la prova di una sconfitta? «Cannavaro aveva portato freschezza. Ma l’effetto non è durato. Certo, l’ho visto lavorare con passione. Ma dopo la fiammata iniziale ci eravamo spenti anche con lui. E’ andato via il direttore sportivo, un particolare non irrilevante. Non c’era più condivisione nella soluzione dei problemi emersi. Tanti. I professori di calcio sono il pronto soccorso che a parole funziona sempre. Ma sono i fatti la realtà. Serviva altro».
Stellone è un combattente. «Mi è sembrato l’uomo giusto per generare risorse umane e ambiente. Ci sta provando con tenacia. E non molla. Come me. Ha un’etica non comune e coi giovani sta facendo bene. Ma non ci si salva da soli».
Comportamenti e regole che non esistono o sfavorevoli alle società. Quali cambierebbe? «Siamo passati dalla schiavitù dei calciatori a quella dei presidenti, prigionieri di calciatori e procuratori. Non esistono contratti a seconda delle categorie con automatismi e parametri prestabiliti per salvaguardare il conto economico dei club. Se retrocedi in B scende di categoria solo la società. I calciatori continuano a guadagnare stipendi da A, benché i club non incassino più le stesse risorse».
Non basta il paracadute? «Ovvio che no. Altrimenti perché tanti fallimenti? Bari e Palermo sono ripartiti dalla D per debiti insostenibili».
Cosa pensa del disallineamento tra le norme civilistiche che riguardano i debiti ristrutturati dei club e le Noif che ha portato al deferimento della Reggina? «E’ un caso che mette in grave pericolo l’autonomia dello sport. Non è possibile continuare con vecchie regole che impattano sul nostro ordinamento. Bisognerebbe ripartire da zero e riscrivere norme che contemperino giustizia sportiva e ordinaria. Ma andrebbe rivista anche la ripartizione delle risorse derivanti dalla vendita dei diritti tv. Sono problemi noti, ma gli interessi sono tanti e non conciliabili. Non c’è riuscito nessuno».
Il ministro dello sport Andrea Abodi è l’uomo giusto per risolverli questi problemi? «Un professionista che conosce il sistema da dentro e sa che la soluzione non può essere più rinviata. O muore tutto. Indipendenza non significa anarchia. Bisogna che – come si dice a Napoli – si trovi penna, carta e calamaio e si scrivano regole univoche. Come dice il presidente Balata».
Il presidente Gravina ha aperto a revisioni. Ma chi ha rispettato i termini è il vero danneggiato? «Chi si comporta in modo onesto fa il suo dovere. Viene avvantaggiato chi viola le regole. La Reggina sta usufruendo di una maggiore disponibilità finanziaria che ha inciso sul piano tecnico. Anche se poi per vincere non bastano i soldi. Le regole vanno riscritte. E debbono essere inequivocabili».