Retegui: «L’Italia un sogno, ho detto subito sì a Mancini. Quando torno voglio visitare Canicattì»
L’edizione odierna de “La Gazzetta dello Sport” riporta le parole di Retegui in merito alla convocazione in Nazionale.
La prima cosa che salta all’occhio nell’incontrare Mateo Retegui è la puntualità svizzera. «Ci vediamo alle 17» ci aveva scritto la sorella Micaela, argento olimpico nell’hockey prato a Tokyo, che gli dà una mano nelle pubbliche relazioni. E alle 17 spaccate ecco Mateo aprire la porta della villetta all’interno del villaggio di Santa Barbara, periferia nord a una trentina di chilometri dal centro di Buenos Aires, vicinissimo a San Fernando, dove è nato: area dominata dal verde, piccoli laghetti attorno a cui sorgono le case, l’unico suono è il silenzio. La seconda sono gli occhi, puliti e di un verde chiarissimo che a tratti sembrano quasi trasparenti. La terza, l’educazione e l’umiltà. «Non amo troppo le interviste, sono una persona tranquilla e riservata che non vuole apparire. Parlo dopo le partite, devo, per il resto preferisco restare defilato».
Parla, e tanto, però, con i gol. Capocannoniere 2022 della Primera Division argentina con 19 reti, quest’anno è ancora lui a guidare tra i marcatori con 7 gol. L’ultimo, domenica scorsa al 99’, ha dato al suo Tigre una vittoria per 2-1 sul Lanus. È stato il terzo gol in altrettante partite per Retegui. Gli altri due? Speciali, perché arrivati nel suo debutto con l’Italia di Roberto Mancini, quello inutile nella sconfitta per 2-1 con l’Inghilterra, e il primo nel 2-0 con Malta. San Mateo, lo chiamano i tifosi del Tigre, e chissà che non lo possa diventare anche per quelli italiani. Intanto, seduto sul divano della piccola veranda che dà sul giardino e sorseggiando l’immancabile mate, Mateo comincia a raccontare. E non si ferma più.
Di Retegui calciatore si sa ormai quasi tutto. Ma chi è Mateo? «Un ragazzo tranquillo, dal profilo molto basso, che ama stare a casa, allenarsi, passare tempo con la famiglia, i suoi cinque cani e gli amici, guardare film e serie tv. Se dovessi usare una parola, direi semplice».
Lei è nato a San Fernando, gioca nel Tigre. Tutta la sua esistenza in pochi chilometri quadrati. «Sì. Papà vive a pochi chilometri da qui, mamma a cinque isolati dallo stadio del Tigre, gli amici sono quelli di sempre. Qui ci sono tutte le mie radici. Per il momento, perché il futuro potrebbe essere in Europa».
Lei è stato il capocannoniere del campionato 2022: perché il Boca, che è comproprietario del suo cartellino, non l’ha voluta? «È la prima volta che lo racconto: il contratto con il Tigre è di due anni, ma il Boca lo scorso novembre aveva l’opzione per richiedermi. Però non si è fatto sentire nessuno. Alla ripresa degli allenamenti a fine dicembre ho parlato con Diego Martinez (l’allenatore; n.d.r.), dicendogli che il Tigre per me è più di un club e che, a meno che la società per motivi economici non avesse accettato un’offerta dall’estero, sarei voluto rimanere. Poi a gennaio, poco prima dell’inizio del campionato, Hugo Ibarra (fino a una settimana fa allenatore del Boca; n.d.r.) mi ha detto che era interessato a me già per questa stagione, ma io avevo già dato la parola al Tigre. Per rispetto verso il presidente, tutta la società, Martinez e i miei compagni, a quel punto avrei accettato solo di andare all’estero».
E con la Nazionale italiana come è cominciato tutto? «Un giorno a inizio anno stavo tornando da un allenamento e papà mi chiama per dirmi che aveva una notizia molto importante. Ma non mi sarei mai immaginato una cosa così, nemmeno nel più bello dei sogni avrei potuto pensare di giocare per l’Italia, a Napoli, nello stadio che porta il nome di Diego Armando Maradona. Non appena papà mi ha detto che Roberto (Mancini; n.d.r.) mi voleva, il mio sì è arrivato velocissimo, non c’era molto da pensarci».
Ha parlato con Mancini prima di venire in Italia? «No, lo ha fatto solo mio papà. Con Roberto abbiamo poi parlato tanto a Coverciano, soprattutto di tattica e di come lui intende giocare. Devo ringraziare lui, tutto lo staff tecnico e i miei compagni per come mi hanno accolto e fatto sentire. Non mi sarei mai immaginato di vivere tutto questo. Ho provato a sfruttare al massimo ogni giorno per conoscere l’ambiente e iniziare a capire meglio il calcio europeo, che è molto diverso da quello argentino: è più veloce, dinamico, intenso. Si adatta a me, mi piace molto. Adesso l’obiettivo è di prepararmi ancora meglio a livello fisico e mentale se l’Italia mi dovesse richiamare»
La storia della chiamata di Mancini incomincia in Sicilia, a Canicattì, da dove veniva il suo bisnonno materno, Angelo Dimarco. «La conosco quella storia, mia nonna me l’ha raccontata tante volte».
Lo sa che il sindaco vuole darle la cittadinanza onoraria? «No, davvero? Lo scopro da lei adesso. Bellissimo, ne sarei orgoglioso. Quando torno in Italia voglio andare a visitare quelle zone».