Repubblica: “Qatar 2022. La voce degli invisibili: «Così i nuovi schiavi sono morti di lavoro»”

L’edizione odierna de “La Repubblica” si sofferma sul Qatar 2022 e la voce degli “invisibili”.

È uno dei milioni di foreign worker, i migranti del lavoro arrivati a Doha che hanno costruito con il sudore e spesso il sangue gli stadi in cui il Qatar celebrerà tra qualche ora la sua festa Mondiale. Quando si collega con noi da Kathmandu, Devaraj è insieme a un amico, Baharat, conosciuto nei dormitori qatarioti. Parla inglese, ma ha accanto a sé una interprete, per essere sicuro di farsi capire. Prima di iniziare a raccontare, sistema sulla sua testa il suo palpali topi, un tipico copricapo nepalese, viola e rosa. È tornato dal Qatar all’inizio del 2022, era partito a fine 2018: addetto alla sicurezza nei cantieri degli stadi di Al Wakrah e Al Khor.

«Lì una volta un collega ha avuto un incidente». Fa una pausa, poi continua: «Era un elettricista, stava lavorando nel seminterrato di uno stadio. Non so se avesse dimenticato di togliere la corrente, ma mentre lavorava all’improvviso è stato colpito da una forte scossa elettrica. È morto lì, così». Una delle migliaia di morti sul lavoro – almeno 6.500 secondo le inchieste di questi anni, ma le denunce sono oltre il doppio – che hanno macchiato la corsa del Qatar verso il calcio d’inizio dei Mondiali. Segno di quanto poco fosse garantita la sicurezza sul lavoro. E di quanto potesse pesare la stanchezza.

«A volte dovevamo lavorare per dodici ore, a volte non ci venivano concessi giorni festivi, nemmeno di malattia. E se eravamo malati, dovevamo andare lo stesso a lavorare. Se poi qualcuno non si presentava, anche fosse stato male, il datore di lavoro tagliava immediatamente lo stipendio». Ribellarsi? Pessima idea: in Qatar l’associazione sindacale è ancora vietata: «E poi i datori di lavoro non amano avere gente che protesta. Se avessimo protestato saremmo stati licenziati o la polizia ci avrebbe potuti arrestare». Almeno il pranzo era garantito? «Sì. Ma se quando rientravamo dal lavoro arrivavamo in ritardo per il pranzo, non eravamo autorizzati a mangiare. E se qualcuno si lamentava, la società diceva che lo avrebbe licenziato».  Mentre parla, interviene l’interprete nepalese: «Sono problemi comuni a ogni lavoratore, penso. No?».

In effetti no, le spieghiamo. Sorride imbarazzata. «A un certo punto – riprende Devaraj – la compagnia ha abbassato gli stipendi e poi non pagava più per tempo. Poi ha iniziato a rimandare a casa alcuni lavoratori: per questo ho deciso di tornare».  Anche perché cambiare lavoro era impossibile senza un’autorizzazione scritta della società: «In Qatar se l’azienda non ti dà il Noc, il No objection certificate, non si può andare a lavorare in un’altra società o in un altro Paese. È il sistema della kafala»

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Redazione Ilovepalermocalcio