L’edizione odierna de “La Repubblica” si sofferma sui motivi per il quale è valsa la pena sognare con il Palermo di Zamparini.
Il calcio sarebbe uno sport popolare perché, nel senso comune, riguarderebbe i ceti “popolari”. Non è vero. Il calcio è trasversale, e per questo è tra le cose più democratiche che si possano pensare, perché non c’è niente di più bello, se sei laureato ed eserciti una professione, di ingaglioffarti a discutere sull’ultima giornata di campionato con chi passa la vita a fare pulizie.
E lì saltano tutte le differenze sociali e culturali perché se lui è juventino e tu sei milanista l’unica differenza è che tu sei milanista e lui juventino, e questo determina quella sana faziosità che rende interminabili le discussioni sul rigore dato all’ultimo minuto. Tra le persone colte ci sono ovviamente anche gli snob che il calcio non lo seguono perché lo considerano una cosa nazional-popolare come il festival di Sanremo.
Il calcio può restituire il buon umore a chi è gravato dalla vita o regalare comunque ore di distrazione e divertimento a tutti.
Tutte queste parole implicano una sorta di sospensione del tempo. Dal 2004 a Palermo questa sospensione del tempo divenne qualcosa di più, e trascinò con sé anche chi col calcio intratteneva un rapporto sporadico. Juventini, milanisti e interisti improvvisamente sentirono di dover relativizzare la loro fede calcistica ed entrare nella festa del Palermo in serie A. La sospensione del tempo si tramutò in sogno. La squadra della tua città poteva confrontarsi con quelle per cui avevi fatto il tifo per una vita.