L’edizione odierna de “La Repubblica” si sofferma su alcune dichiarazioni rilasciate da Patric Evra attraverso le pagine del suo libro.
Come nei suoi video su Instagram da milioni di spettatori, Patrice Evra ama questo gioco. Cioè la vita. «Perché io sono sempre vivo! Forza Juve!». Ora, il suo virale motto I Love This Game è diventato anche la sua autobiografia, pubblicata in Inghilterra da Simon & Schuster. Il campione francese nato nella senegalese Dakar, alias “Zio Pat” per i tifosi juventini, effonde gioia e positività da Dubai. Nonostante nelle sue memorie ci sia una tremenda rivelazione: «Sono stato abusato sessualmente da un mio insegnante, a 13 anni».
Adesso, il 40enne Evra, ex straordinario terzino della Juve e della Francia, ha deciso di rivelare tutto, incluso alla sua ignara madre “in lacrime”. Questo perché «mi sono pentito di aver taciuto. I bambini devono denunciare queste atrocità». È il primo, drammatico capitolo del libro, che però contiene anche altre sorprese: sulla Juve, sul Manchester United, sugli esordi a Marsala.
Da bambino lei ha vissuto problemi economici, gang giovanili, spaccio, violenze sessuali. Come fa a essere sempre positivo? «Perché non ho mai cercato scuse. Mia madre mi ha educato così. Credo in Dio. Credo nell’energia positiva. Per questo I love this game».
Nel libro si intuisce quanto sottile sia la linea tra successo e fallimento per un calciatore. Quando lei nel 1998, a 17 anni, si trasferì addirittura al Marsala, in Sicilia, l’allenatore Frosio “non credeva in lei”. «Il talento, anche se hai la classe di Messi o Ronaldo, per un calciatore conta solo il 20%. Il 30% è etica del lavoro. Il 50% forza mentale. Io vengo dalla strada. Ciò mi ha fortificato e non mi ha fatto mai soffrire alcuna pressione. Oggi, invece, le nuove generazioni pensano più alla fama e ai soldi, hanno tutto e subito. Quando a Marsala ebbi una tuta ufficiale, mi sentii in paradiso. Oggi invece, se un calciatore ha un problema, si lamenta con l’agente. Ma li capisco: hanno un’esposizione sui social pazzesca».
Marsala le ha salvato la vita? «È stata la mia fuga da un tunnel, la mia seconda famiglia».
Nel libro racconta come a Marsala per la prima volta abbia subito il razzismo, da parte di un anonimo compagno di squadra. «Non nasciamo razzisti. È un problema di istruzione, sociale. Il calcio lancia molti messaggi, ma non è abbastanza».
Cosa si dovrebbe fare? «Contro la Superlega, migliaia di tifosi sono scesi in strada, riuscendo a fermarla. Sarebbe bello se tutto questo si facesse contro il razzismo. I social media possono maggiore filtro. Infine, fino a quando non si comminano forti multe ai razzisti, non cambierà mai nulla».
Nel libro sottolinea le differenze tra il calcio italiano e altri Paesi.
«In Italia ci si allena troppo. Se si trovasse l’equilibrio giusto, le squadre italiane potrebbero vincere già spesso la Champions. Invece, si spinge tutto all’estremo. Per me è un segno di insicurezza. Il mio primo anno alla Juve, perdemmo la Champions in finale. Sono convinto che quella coppa avremmo potuto vincerla se non fossimo arrivati così sfiniti, fisicamente e mentalmente».