Repubblica: “Palermo, i giorni del Coronavirus. La paura svuota le strade e c’è chi vieta la “vasata”

L’edizione odierna de “La Repubblica” si sofferma sull’arrivo del Coronavirus a Palermo. La città è diventata subito deserta: la paura si sente nei discorsi per strada e nei bar. Pasquale Alessi, tabaccaio del Cassaro, mentre addenta un calzone al forno aspettando il caffè che Baldo del bar del Corso gli sta preparando, espone la sua teoria: «La colpa è di Garibaldi: se non insisteva con l’unità d’Italia, a quest’ora il virus i lombardi lo facevano circolare in Austria e non qua».
La paura si “sente” dunque. E si vede: nei carrelli della spesa carichi di acqua e scatolette; nell’elenco delle prenotazioni per mascherine e igienizzanti per le mani sui banchi delle farmacie; nella facce di chi, suo malgrado, è costretto a stare in giro e soprattutto ad aspettare i turisti. Seduto in carrozza, il cavallo che sonnecchia, il cocchiere col cappellino calato fin sopra gli occhi e la sciarpa che copre naso e bocca, dice che mai avrebbe pensato che alla fine avrebbe dovuto temere degli italiani: «Mischini i cinesi, loro sono come noi», dice al collega che gli sta seduto al fianco. E in effetti fa male vedere abbassata la saracinesca di uno dei più frequentati ristoranti cinesi della città: siamo vicini all’hotel Mercure dove il gruppo di bergamaschi, partito insieme con la turista e il marito risultati positivi al coronavirus, è in quarantena. Al supermercato una giovane cinese, mascherina in viso, chiede latte in polvere e poi scappa via. Nel negozio “tutto a un euro” la cinese Mali, lunghi capelli corvini e pullover rosso, dice che lei in Cina non ci torna da anni: «Sono gli italiani che portano la malattia. Qui i turisti entrano, anch’io sono preoccupata». Preoccupazione tra i vigili urbani: «Certo che abbiamo paura: sa quanti turisti ci fermano per chiedere indicazioni? Se ci fosse stata anche lei, la bergamasca?», dice un agente della pattuglia di stanza al teatro Massimo. Alla caserma di via Dogali non ci si saluta più con il bacio, solo con la mano da lontano: una «disposizione» , anche se non ancora messa per iscritto. La vasata — un’abitudine tutta palermitana — è un problema soprattutto per chi incontra decine di persone ogni giorno. E così, in un bar di viale del Fante, il deputato regionale Edy Tamajo, che ogni giorno “riceve” al bar almeno 50 persone e ne incontra altrettante nel resto della città, ha chiesto a tutti di evitare: «Magari per qualche giorno». Da “ Ke Palle”, in via Maqueda, oggi c’è meno movimento. La ragazza che serve le arancine ostenta il fatalismo siciliano — «prima o poi di qualcosa moriremo» — ma dalla finestrella che dà sulla cucina sbuca un suo collega che ammette che di paura ne ha un bel po’. Di fianco, la signora Marilena di “ Spremiamo” più del virus teme l’effetto paura: «E se non viene più nessuno?». In effetti l’allarme ha svuotato le strade. Si trova posto per l’auto all’ora di punta nelle zone blu di via Libertà e la posteggiatrice abusiva della Cala ha meno lavoro. Tanto che col figlio discute del virus: «Aveva ragione Salvini, la legge si doveva rispettare e questi “turchi” dovevano restare a casa loro». Inutile provare a spiegarle che i migranti non c’entrano e che la legge anzitutto non prevede “tasse” sul parcheggio al di là delle strisce blu. E intanto in piazza Marina gli anziani che ciondolano parlano di una nave a Pozzallo «piena di turisti con il virus», anche se in realtà si tratta dei migranti salvati da Open Arms e messi in quarantena per precauzione.