Repubblica: “Palermo. Corrado Lorefice «Rosalia e la Costituzione ci aiuteranno a guarire»”
L’edizione odierna de “La Repubblica” si sofferma sulle preghiere rivolte a Santa Rosalia affinché si possa uscire dalla situazione di emergenza. Il balcone del palazzo arcivescovile affacciato sul Cassaro si apre ogni giorno, alle 12 in punto. Corrado Lorefice, il parroco-teologo, si affaccia e recita una preghiera rivolta a Santa Rosalia. Sono trascorsi quattrocento anni, dalla pestilenza che si spense — così vuole la tradizione — al passaggio delle reliquie della futura patrona.
Quattro secoli attraversati dall’Illuminismo e dal progresso scientifico: eppure siamo ancora lì, a sperare che Rosalia scacci la nuova pestilenza, il virus che corrode i polmoni e ci imprigiona a casa. Lei che fa, don Corrado, in queste lunghe giornate di clausura? «Cose essenziali. Grazie agli strumenti tecnologici mi tengo in contatto con le varie comunità, dislocate in tutta la diocesi, che hanno bisogno di parlare con il vescovo per prendere decisioni o anche solo per avere un sostegno. Leggo di più, prego di più e anche più profondamente».
Che cosa legge per ora? «Un libro di Gustavo Zagrebelsky, “Mai più senza maestri”. Questo è un momento in cui abbiamo un grande bisogno di punti di riferimento, di maestri. E ho anche ripreso in mano qualche testo di Carlo Maria Martini e di Primo Mazzolari. Compagni di viaggio che mi hanno sostenuto nel cammino».
Come vive la chiusura delle chiese ai riti, il divieto di celebrare messa in pubblico? «Ci stiamo sforzando di tenere aperte le chiese, almeno per poche ore al giorno. Un segno di presenza. Per quel che posso capire, la gente sta apprezzando molto di più adesso il valore di ciò che viene a mancare. C’è una grande sofferenza, perché l’eucaristia è anche rito, e quel pane spezzato ci mette insieme e ci fa ripartire nella condivisione. Ma per noi sacerdoti questa è anche un’opportunità per recuperare i significati più veri dell’esperienza ecclesiale».
Cosa le dicono i parroci? Che sentimenti provano? «In alcuni sacerdoti ho colto anche le lacrime, quelle del cuore. E li capisco: vedono la gente che è affidata alle loro cure soffrire in preda all’incertezza, al timore di questa piovra che può sopraggiungere da un momento all’altro. A tutti loro mancano le famiglie, i ragazzi, gli anziani. Sono guaritori feriti. Ma si danno da fare, con le tecnologie e una grande creatività».
Fra tre settimane è Pasqua. Stavolta senza le palme agitate sui sagrati, senza processioni, senza Via crucis. Che Pasqua sarà? «Una Pasqua in continuità con la Quaresima. La Pasqua è la deflagrazione della luce, porta un annuncio di liberazione e di vittoria sulla morte. Ma questa volta lo farà mentre attorno a noi c’è separazione, c’è lutto. Potremmo viverla come attesa di riscatto: una Pasqua in cui esploda dentro di noi il meglio che abbiamo di vita, di relazioni, di capacità di non assoggettarsi all’abitudine, alla brama».
Lei intanto prega Santa Rosalia perché ci liberi dalla nuova peste. «È strano, lo so. La nostra è una generazione che è vissuta sotto il potere dei vaccini, degli antibiotici. Non avremmo mai pensato di tornare a un clima di pestilenza.
Rosalia è legata a Palermo perché partecipa alle sue sofferenze, anche secoli dopo essere vissuta. Io la sento vicina, per questo chiedo a lei l’intercessione, la grazia. Ma dico anche che noi tutti dobbiamo avere la forza di debellare il contagio che semina paura, e dobbiamo farlo con intelligenza e amore. Dobbiamo fare ciascuno la propria parte, rispettare le precauzioni, rinunciare a una passeggiata. A Rosalia dobbiamo chiedere che ci renda cittadini partecipi, attivi. Oggi andrò a pregare in cattedrale, nella cappella che accoglie le sue reliquie. Dovrò essere solo, ma entrerò lì a nome di tutti, non solo dei cristiani».
Si può credere o no ai miracoli dei santi, ma questa epidemia planetaria dimostra che neanche la scienza fa miracoli. Che il progresso è impetuoso ma fragile.
«Non voglio approfittare di questo momento di debolezza umana per impiantare l’idea di Dio, della sottomissione a un Dio. Ma dobbiamo scoprire una visione antropologica integrale. Per troppo tempo abbiamo sacrificato l’anima, l’energia dell’esistenza umana. E invece non siamo un ammasso di cellule, e anche dal punto di vista scientifico è un’energia che tiene insieme le cellule. In questi giorni stiamo scoprendo cose ordinarie ma importanti e trascurate: il saluto, lo sguardo, il silenzio, il rientrare in noi stessi, il sostare. Cose che conosciamo poco e ci fanno paura, ma che possono darci la capacità di riguadagnare una vita un po’ più in profondità. Ci siamo troppo affidati alla scienza: ben venga, purché ci ricordiamo che l’uomo non è onnipotente».
C’è una domanda semplice e tremenda che affiora dinanzi a ogni catastrofe, che si ripresenta adesso che vediamo migliaia di persone, anziani soprattutto, morire sole, lontane dai loro affetti, sepolte in fretta senza un funerale. Come può Dio permettere tutto questo?
«Non ho mai avuto la presunzione di rispondere a questa domanda. Ho risposto sempre: questo io non lo so.
So solo una cosa: che il cuore del Vangelo, della fede cristiana che ho scelto e a cui ho legato la mia vita, è che c’è un Dio che prende parte alla mia condizione umana. Il Verbo si è fatto carne, Dio conosce nella sua carne la nostra stessa condizione. Bonhoeffer diceva che la fede è una partecipazione alle sofferenze messianiche di Cristo. Del Cristo che grida dalla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Dio è con noi, piange con noi, ci salva condividendo il nostro cammino».
A proposito di legalità, a Palermo non ci comportiamo bene: le “vampe” con le sassaiole contro i vigili del fuoco, la ressa per comprare i dolci di San Giuseppe…
«Questa è una grande sfida culturale. Un’altra trincea su cui misurarsi: chi accende i roghi in piazza lo fa perché non possiede le categorie per decodificare quello che accade intorno a sé. Per un ragazzo che conosce venti vocaboli, come diceva don Milani, la “vampa” è tutto il suo mondo. Questa fu la grande intuizione di padre Puglisi: qui è la sfida, qui c’è da lavorare tutti insieme, facendo rete. E chiedendo con forza allo Stato, al sistema dell’istruzione, cosa vogliono fare».