Repubblica: “Ma quale Juventus, era solo un inganno. Rashed è senza calcio” (VIDEO)
“Ci sono sogni che cominciano su Internet e svaniscono al campetto di calcio, dall’altra parte del mondo. Ci sono storie che sembrano scolpite, il piccolo Rashed, il bambino rifugiato che a dieci anni palleggia come un fenomeno, il Messi di Palestina già preso dalla Juve. E invece erano scarabocchi, righe nere tracciate male su un foglio stropicciato. Un anno fa ne parlavano tutti. Il video del piccolo Rashed Al Hijjawi col pallone incollato al piede come nella canzone aveva fatto il giro del mondo. La sua famiglia: papà Mohanad, mamma Baidaa, tre figli. A Torino dalla Norvegia, e prima da Bagdad. Per far giocare Rashed da professionista (“professional football player” c’era infatti scritto sul profilo Twitter del bimbo) dopo avere incontrato Cristiano Ronaldo a Madrid e Zidane a Mappano Torinese, all’inaugurazione dell’impianto sportivo di Zizou. Ma, soprattutto, le visite mediche allo JMedical, il centro sanitario della Juventus dove però può andare chiunque: non è che se vai lì, ti visitano e giochi a pallone, poi ti prende Allegri. Ma Rashed ci aveva creduto. Domani cominci ad allenarti a Vinovo, gli avevano detto. Non la Juve ovviamente, che ha sempre smentito: sotto i 10 anni non si può tesserare nessuno. Ma un bambino fa presto a volare con la fantasia, e anche mamma e papà ci avevano creduto. «Invece non era vero niente: abbiamo dovuto imparare un po’ di italiano per rendercene conto». Il signor Mohanad è un omone di 43 anni col viso allegro. Si è portato dietro l’altro figlio Ahed, sedicenne («Un fenomeno sui libri come Rashed col pallone, già parla sette lingue») perché gli faccia da interprete e lo aiuti a raccontare la storia di una chimera. «Qualche persona ci aveva illuso: dopo le visite allo JMedical, Rashed sarà juventino, ci dissero. Quel giorno eravamo talmente felici che andammo a comprare le scarpette da calcio nuove in piazza Castello, però a Vinovo non siamo mai arrivati». Una vicenda poco chiara, che il papà di Rashed riassume a fatica. «Il giorno dopo le visite mediche, la persona che ci aveva accompagnato ci ha detto che avevamo capito male e che Rashed non era ancora della Juve. Troppo piccolo il bambino, che adesso ha undici anni. La carta d’identità l’ha avuta solo il 5 aprile, noi abbiamo lo status di rifugiati però stiamo aspettando i documenti. Il mio passaporto dovrebbe arrivare questo mese». Rashed nel frattempo non gioca più. «Viviamo a La Loggia, in provincia di Torino. Il mio lavoro in Norvegia era nella logistica dei trasporti, ma abbiamo venduto tutto e con l’aiuto dei miei genitori – mio padre era un generale di Arafat – siamo venuti a Torino perché il calcio italiano era il sogno di Rashed. Tutto inutile». La famiglia Al Hijjawi si è sentita dare la stessa risposta già arrivata via mail da Barcellona e Chelsea: il ragazzino è forte ma non può essere tesserato. Adesso rimangono le foto su Internet con pallone e scarpette dello sponsor, e il mazzo di illusioni cadute. «A tre anni Rashed già dribblava tutti». Come Messi, però non basta per essere come lui. «Due anni fa il primo canale della tivù norvegese è venuto a casa nostra per uno speciale sul bambino, la gente ci fermava per strada. Ma se mio figlio non gioca, come fa a diventare calciatore?». Ce lo chiedevamo tutti, da piccoli, quando non c’era Internet e nessuno poi c’è riuscito. «Ma quando arriva il passaporto forse ce ne andiamo in Germania: anche là il calcio è importante. Anche se io spero ancora di poter iscrivere Rashed alla scuola calcio della Juventus, spero che loro si facciano vivi, e quando avrà 14 anni spero che sia finalmente tesserato». I sogni dei padri, più ancora delle colpe, ricadono sui figli. E fanno male”. Questo quanto riportato dall’edizione odierna de “La Repubblica”. Di seguito una clip: