L’edizione odierna di “Repubblica” riporta un’intervista all’ex ct della Nazionale Lippi. Squilla molte volte il telefono di Marcello Lippi nella sua casa davanti al mare: lo chiamano dalla Cina. Per sapere come sta, per chiedere notizie sull’apocalisse italiana, per raccomandarsi, addirittura per promettere aiuto. Noi, loro. L’Italia, i cinesi, il virus, i giorni della paura, della lotta e dell’attesa. I giorni della speranza che prima o poi dovrà tornare.
Lippi, cosa le raccontano i suoi amici cinesi? «Sono molto cari, mi ripetono di stare attento: si riguardi, mister. Mi hanno anche promesso di mandarmi le mascherine». Là è cominciato tutto, là forse tutto sta finendo: cosa ne pensa? «Che è stato giustissimo, sacrosanto chiudere qui da noi come in Cina. Loro ce l’hanno fatta e ce la faremo anche noi». Ha paura? «No, e non chiedetemi perché. Certo non sono un incosciente. Ma adesso quello che conta è essere prudenti e responsabili. Domenica, qui a Viareggio c’era un sole splendido, pareva già estate e la gente si affollava nei ristoranti, nei bar, nelle gelaterie. “Ma siete matti?” pensavo io. Non state sentendo cosa succede? Una prova di irresponsabilità scoraggiante anche da parte di chi, dal nord, è sceso nelle seconde case in Versilia e all’Elba. Ma non più tardi di due giorni dopo sembrava di stare in guerra». Che effetto le fa? «Ci volevano i decreti governativi per far capire davvero la gravità della situazione. Ora è tutto deserto, silenzioso. Irreale ma necessario. Così si combatte questo nemico tremendo, questo avversario invisibile». Lo sport si è mosso in ritardo? «Nei primi momenti il quadro cambiava ogni dieci minuti, siamo stati presi un po’ alla sprovvista. Ma poi c’è stato tutto il tempo per capire e agire: abbiamo compreso che, semplicemente, dovevamo cambiare la nostra vita, che ci piacesse oppure no». Eppure siamo stati capaci di litigare per interessi di bottega mentre attorno si moriva, si muore. «Non è stato uno spettacolo edificante. E non capisco come si possa pensare di disputare gli Europei a giugno o le Olimpiadi in Asia, in Giappone, tra luglio e agosto: come dire dopodomani. Per fortuna l’Uefa ha finalmente deciso di sospendere le Coppe, e credo sarà così anche per gli Europei: al limite, disputiamoli l’anno prossimo ma non adesso, non a tutti i costi e chissà come, chissà dove. Questo permetterà di tentare di salvare almeno i tornei nazionali, che secondo me vanno sempre privilegiati». Per l’assegnazione dello scudetto esistono varie ipotesi. Qual è il suo parere? «Ho letto dei play-off ma non mi convincono, e neppure l’idea di assegnare lo scudetto adesso, così, in base alla classifica. Se tra un mese, un mese e mezzo la situazione renderà possibile il ritorno in campo, credo che il campionato debba essere ripreso e concluso nel modo tradizionale, altrimenti pazienza. Altre soluzioni mi sembrano mortificanti». Le istituzioni europee non si sono rivelate in linea con l’Italia, e non solo quelle sportive. «Dopo l’appello del nostro paese, la signora Lagarde ci ha dato un bello schiaffo in faccia. Il problema del virus è continentale, anzi planetario: se ne può uscire solo insieme, senza egoismi e chiusure». Come una partita all’ultimo rigore? «Più o meno, sì. Ai Mondiali del 2006 prendemmo coraggio dopo le prime vittorie, quelle che io definisco dell’autostima. Battemmo in amichevole Olanda e Germania, sapevamo di essere in forma. Ricordo che i miei giocatori dicevano “siamo forti, cavolooo!” e lo diventammo ancora di più dopo quel casino di Calciopoli. Lo sport è un esempio da seguire. In questo momento, come in Germania tanti anni fa, avremmo bisogno dei primi risultati, di qualche numero finalmente incoraggiante, qualche statistica positiva: e allora riprenderemmo coraggio come l’Italia prima della finale contro la Francia. Sentivamo che ce l’avremmo fatta e anche adesso ce la faremo». Ci attendono mesi senza sport. Come viverli? «Lo chiedete a una persona che tutte le sere guarda almeno una partita di pallone in tivù. Lo sport ci aiuta a vivere, io non penso proprio che sia un aspetto inessenziale della vita, anzi ci permette di pensare ad altro, rende meno amari i giorni di tanti. Ed è bellezza, emozione, partecipazione. Ora, però, la salute ha la precedenza. Dobbiamo pazientare, restare lucidi e positivi e sapere che poi sarà tutto più bello, più intenso, come nuovo. Tornerà il caldo e potremo passeggiare di nuovo insieme, andare in bicicletta, in spiaggia, abbracciarci». Cosa la spaventa di più? «Le conseguenze economiche, per tanta gente che già ora fatica a comprare il cibo e pagare le bollette. Servono aiuti alle piccole aziende, ai negozianti, ai lavoratori autonomi ma anche ai dipendenti. Un negozio che deve restare chiuso per due o tre settimane può rischiare anche di fallire». Lippi, e lei come sta trascorrendo questa emergenza? «In casa, come dovrebbero fare tutti, anche se mi sento un leone in gabbia. Vedo che i miei figli sono preoccupati, mi ripetono in continuazione di stare fermo e non uscire. Mi conoscono, sanno che faccio fatica. E poi si scherza con gli amici che, come me, non sono più ragazzini e dicono “eh, ma come fo a stare un mese chiuso in casa con la mi’ moglie?…” Lo sapete, noi toscani scherziamo sempre per sdrammatizzare». Insomma, a parte la fine del mondo tutto bene. «Quella la annunciavano già nella Bibbia, è da un po’ che se ne parla: era pronosticata. Ma io non sono mica ancora pronto».