Repubblica: “La città che esalta i potenti e li dileggia quando cadono”

“Anche chi non ha un particolare interesse per il calcio, dovrà probabilmente sentirsi turbato e in preda di una sottile apprensione, in questo confuso e difficile momento che attraversa il patron Zamparini, se ha a cuore le sorti della città. Il futuro della squadra e della società è infatti quanto mai incerto e nebuloso. Mentre la Finanza indaga su ipotesi di reato di enorme entità, tutti i tifosi e tanta parte della cittadinanza si domandano con crescente angoscia come finirà questa contorta e fosca vicenda in cui è in gioco molto più che un fatto sportivo. Già i dubbi, perfino tra gli osservatori meno ferrati in questioni d’affari e di calcio, erano sorti durante le lunghe e misteriose trattative per la cessione della società all’imperscrutabile Baccaglini, emissario di potentati remotissimi e arcani. Sicché, quando infine Zamparini, giudicando insufficienti le garanzie prodotte dal potenziale acquirente, ha deciso che non se ne faceva niente e che si teneva la nave del Palermo, ancorché alla deriva, in molti abbiamo tirato un sospiro di sollievo che in parte leniva e in parte acuiva un senso profondo di delusione. Il tempo delle iene non è ancora arrivato, ci siamo detti. Magrissima consolazione, peraltro. Ma intanto la rabbia e la frustrazione, fra gli ultras e i tifosi “militanti”, montava e ribolliva. Solo che, anche ad aguzzare uno sguardo speranzoso, nessuno riesce tuttora a scorgere uno sbocco possibile per una questione così intricata e torbida. Di Zamparini è ormai facilissimo diffidare, avendo egli dilapidato quanto aveva precedentemente costruito. A Baccaglini, d’altronde, concedere credibilità è forse ancora più arduo. A troppi è sembrato il portavoce di una britannica impostura, per parafrasare uno storico equivoco, il cui linguaggio astrattamente manageriale è davvero risultato incomprensibile come l’arabo dei proverbi. Cose turche, insomma. Fumisterie. Ma esclusi i due poli della contesa, non resta altro sul tavolo delle trattative e delle ipotesi realistiche. Tertium non datur. Resta invece un senso diffuso di smarrimento. Zamparini, in anni non troppo lontani, era parso l’Uomo della Provvidenza. Calato da un Nord estremo (come i Normanni), aveva risollevato la squadra del Palermo da una condizione di mediocrità e subalternità, cioè dal pantano di una serie B insuperabile in cui da troppi anni si dibatteva. L’entusiasmo fu subito enorme. E sulle ali di questa ebbrezza la squadra raggiunse obiettivi importanti, senza tuttavia mai spiccare un salto effettivo di qualità. Il che, alla lunga, cominciò a innervosire gli incontentabili. L’Uomo della Provvidenza non faceva veri miracoli. La fede nel deus ex machina cominciò a vacillare. O, a dirla verghianamente, la Provvidenza s’inabissava con tutto il suo carico di lupini. Venivano così a intrecciarsi tre diversi fenomeni, tutti tipici della mentalità palermitana. Il primo, lo abbiamo visto, era l’esaltazione del demiurgo esterno, del risolutore dei problemi venuto da un altrove mitizzato. Si tratta di una reazione di massa che potremmo definire “garibaldina”. E si accompagna alla stagione eroica, del «qui si fa la Storia o si muore» (senza pensare di dover morire davvero, s’intende). Il secondo fenomeno è quello dell’inverno del nostro scontento, del raffreddamento degli entusiasmi. Il passaggio dal fervore al vituperio è repentino, drastico. Il palermitano, specie se appartenente alla categoria volubile della tifoseria, è facile sia alle passioni più focose, sia all’acredine rancorosa del disamorato. Questa mutevolezza riguarda ogni cosa, dalla politica ai luoghi di ristoro e sollazzo. Le mode e le mete, i miti e i riti. Per sottrarsi a questi capricciosi voltafaccia, bisogna uscire dal tempo ed entrare nella leggenda aurea, come Falcone e Borsellino, i santi Cosma e Damiano di un’antimafia liturgizzata (ma di Falcone, in vita, si dubitò e si dissero perfino infamie). L’unica eccezione, sebbene non assoluta, è forse Orlando, il sindaco per intramontabile antonomasia, che di questa dialettica palermitana di apoteosi e dileggio ha fatto un modo per tenersi in equilibrio sulla cresta dell’onda. Ed eccoci infine al terzo fenomeno: la rievocazione nostalgica di una Palermo felicissima, di un’âge d’or che a livello calcistico è quella del presidente Barbera. Periodo veramente radioso, pur senza vittorie, in primo luogo perché conserva in sé la memoria di una città che esprimeva una propria imprenditoria in grado di guidare una compagine sportiva in modo competitivo, entro certi limiti ovviamente. È, quest’ultimo, un fenomeno che potremmo definire ironicamente proustiano, ovvero sempre alla ricerca di un tempo perduto. Che di volta in volta è il meraviglioso della corte federiciana o la belle époque dei Florio in una sorta di sogno collettivo. La nostalgia, nei palermitani, è un sentimento endemico, un’ideologia condivisa, una fantasmagoria. Perciò è ancora più difficile rassegnarsi a talune sconfitte, a certi aspetti di declino, ad alcuni arretramenti. Che sovente sono interpretati come tradimenti di chi si supponeva potesse aprire la strada a inauditi trionfi. E i traditori trascinati dagli altari alla polvere, con un atto fulmineo e motivazioni viscerali. La Palermo ribelle, quella dei Vespri e del ’48, proprio come la nostalgica, non si dà mai pace. Continua ad arrovellarsi su una finale maledetta, un’occasione mancata, l’ultimo tram perso. Ad avercelo, il tram. Che una volta comunque c’era, quando Palermo sapeva forse accontentarsi delle sue contraddizioni”. Questo ciò che si legge sull’edizione odierna de “La Repubblica”.

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Redazione Ilovepalermocalcio