“Nello stadio in cui ha giocato di più, in una carriera disseminata fra le arene più disparate, Alessandro Diamanti tornerà per la prima volta soltanto domenica prossima, guidandovi il Palermo. Tanta acqua è passata, da quel febbraio 2014 degli addii, che ormai è pronostico vano prevedere fischi, applausi o indifferenza, al cospetto di una curva che per due stagioni e mezzo aveva sempre tollerato volentieri la sua inclinazione anarchica. La ricompensa erano stati 22 gol in 88 partite, tra campionato e Coppa Italia, molte prodezze su calcio piazzato e la certezza, mai consolata dalla controprova, che con lui, nel frattempo approdato anche in azzurro, nel 2014 non ci sarebbe stata retrocessione (ma chissà poi quali altri film si sarebbero visti). Il punto, da allora, è sempre quello. Chi volle veramente l’addio del prode Alino, a calciomercato concluso da ormai sette notti? Qualche fiammata sul tema è riemersa, in un truce botta e riposta, sulle colonne di “Stadio”. Protagonisti lui e il presidente d’allora, Albano Guaraldi. «Diamanti fece di tutto per andarsene». «Niente di vero, con la mia partenza lui sistemò il bilancio», il senso della contesa. La sola cosa certa, da allora, è che il trasferimento milionario, dal Bologna al Guangzhou di Marcello Lippi, non fu poi tanto una scelta di vita e di denaro, come parve evidente all’inizio: là, nella megalopoli da 105 milioni d’abitanti, dove la nebbia in realtà è smog, Diamanti è rimasto undici mesi contati, poco più dell’amico Alberto Gilardino, che era stato convinto a percorrere i medesimi passi. «In Cina si va solo per i soldi – spiegava in una recente intervista Furio Valcareggi, procuratore di Giaccherini – ma poi, una volta là, che te ne fai dei milioni?». E così deve aver ragionato Diamanti, a dispetto delle origini orientali della moglie Silvia, nata a Taipei, ma cresciuta tra Faenza e via Oberdan, dove la zia gestiva un ristorante cinese. Dopo Canton, sopita l’idea di una pensione dorata, il fantasista s’è rimesso in gioco tra Fiorentina, Watford e Atalanta, per poi finire a Palermo, e ritrovarsi a lottare, come faceva a Bologna, per non retrocedere. A differenza di allora, però, il rapporto con l’allenatore De Zerbi sembra un bouquet: «Crediamo in lui perchè è una persona che pensa alla squadra 24 ore su 24, vive per il suo lavoro, che interpreta con un entusiasmo e una passione che non avevo mai visto. È una persona che dice le cose che pensa, senza giri di parole», ha confessato Diamanti sabato scorso, spiegando così il motivo per cui, perse sei partite su sei al Barbera, Zamparini non abbia ancora provveduto a tagliar teste come fa d’abitudine. Pure, il tema dei rapporti con l’allenatore fu questione spinosa, quando si trattò di congedare Stefano Pioli, nel gennaio 2014. Diamanti, si disse, fu uno dei principali sostenitori della cacciata. Lui negò sempre, ma tra i reduci d’allora, in primis Morleo, ci fu chi fece ammenda: «Se andò via, fu per colpa nostra», ammise il terzino mesi dopo. Di questo e molto altro si ciba, anche a distanza di sei giorni, la sfida tra Bologna e Palermo, in un corridoio rossoblù folto di infortunati (Di Francesco, Helander, Maietta, Verdi) e di reduci dalle nazionali. Donadoni, che ricomincia i lavori domani, di fatto non avrà la squadra fino a giovedì. L’ultima volta in cui Diamanti, all’epoca atalantino, incrociò il Bologna, fece gol e assist, negando di esser mai stato vicino al ritorno (eppure con la felpa rossoblù c’era eccome ad allenarsi, a Casteldebole). Col Palermo, dopo dieci apparizioni, è ancora a secco: «Spero che una rete arrivi prima possibile – diceva sabato -, soprattutto per dare punti e gioia all’ambiente. Qui tutti mi vogliono bene e non vedono l’ora di festeggiare con me». Anche per questo l’Alino in rosa, come la Cinquecento che guidava su e giù per San Luca, ora spaventa un po’ di più.”. Questo quanto riportato da “La Repubblica – edizione Bologna”.