L’edizione odierna de “La Repubblica” riporta le dichiarazioni di Juan Mauri, centrocampista del Palermo: «Il pallone prima di tutto è passione, poi è diventato un lavoro perché è quello che dà da mangiare a me e alla mia famiglia. Diventare calciatore è sempre stato il mio sogno insieme a giocare in serie A e in nazionale. Non ci avevo mai pensato prima d’ora, ma in effetti quasi tutti questi sogni sono diventati realtà. Mi è mancata la nazionale, ma diciamo che ci può stare (dice ridendo, ndr)». È vero che quando è stato ingaggiato dal Milan con suo fratello Josè Mauri ha detto che le sarebbe piaciuto arrivare in Italia per meriti sportivi e non in quel modo? «Ho fatto l’esordio in B nel club Olimpo in Argentina a 18 anni e abbiamo vinto il campionato, in A e senza essere titolare ho fatto una quindicina di partite. Un giorno il presidente mi ha detto che mi avrebbe venduto, ma io volevo rimanere, pensavo che sarei potuto diventare importante per il club e magari la società avrebbe guadagnato anche di più. Stavo bene in Argentina, giocavo, volevo crescere ancora prima di partire. Ma il procuratore di mio fratello, Dino Zampacorta, voleva portarmi in Italia. E invece da un momento all’altro sono stato fatto fuori squadra nonostante avessi un triennale. Avevo una ventina d’anni e il morale sotto i tacchi. Ho iniziato a girare per l’Argentina, poi sono stato sei mesi in Spagna e alla fine sono arrivato in Italia diventando il fratello di mio fratello». Cosa ricorda del suo arrivo al Milan? «Ho fatto solo una settimana a Milano, poi sono andato subito all’Akragas. Non parlavo l’italiano e mi sentivo smarrito. A Milanello ho fatto amicizia con Vergara, un difensore colombiano che mi ha fatto sentire meno straniero. Ad Agrigento invece c’erano due argentini e un uruguaiano ed è stato tutto più facile». Tesserato per il Milan e prestato all’Akragas. Se lo sarebbe mai aspettato che il suo debutto nel calcio italiano sarebbe stato così? «Sapevo solo che sarei arrivavo in Italia, ma non sapevo dove sarei andato. Poi la telefonata: vai ad Agrigento. Ma non conoscevo nulla, per me contava solo quello che sarei riuscito a dimostrare. E tutto sommato è andata bene, visto che ho la residenza lì e mi ci sono anche sposato con Camila, una ragazza argentina che viene dalla mia stessa città, Realicò. Sono quasi agrigentino». Cosa conosce della Sicilia? «Ho visto poco. Non sono uno che ama girare tanto e mia moglie se la prende perché lei vorrebbe farlo. Viaggio tanto per le trasferte, ma appena posso preferisco rimanere a casa. Capisco che sembra strano, ma sono venuto in Italia per lavorare, per fare calcio, non per fare il turista. Appena posso torno in Argentina, nella mia città, che sarà anche piccolina, ma per me è il posto più bello che c’è. A volte mia moglie non vorrebbe tornare in Argentina. A lei forse piacerebbe un altro tipo di vita, ma io preferisco stare a casa, fare una grigliata con gli amici, una partita a calcetto. Lei tutto il contrario». A vederla giocare trasmette serenità. Non sembra uno frenetico. È corretto? «Sono molto sereno, a volte mia moglie s’incazza per la serenità che ho. Non sono uno che urla, preferisco che un compagno mi guardi e pensi che se sono tranquillo e può stare sereno pure lui». È una caratteristica del suo ruolo? «Non proprio. Una volta il centrocampista era quello che menava, correva e io sono esattamente al contrario. Poi, se me lo chiede l’allenatore lo faccio. Penso che la cosa più giusta nel calcio è dare la palla a un compagno, fare correre l’avversario e correre il meno possibile. Riquelme, un giocatore che mi piaceva tantissimo anche se giocava al Boca e io sono del River, diceva sempre che quando finiva di giocare ed era stanco significava che aveva giocato male, significa che aveva corso tanto e non aveva avuto spesso la palla fra i piedi». Cosa ha portato con sé dall’Argentina? «Praticamente tutto, mate compreso. Nel Palermo in molti beviamo mate, pure il nostro team manager Andrea Siracusa che ormai è diventato quasi più argentino di me. Mi manca casa, la mia famiglia. I miei nonni sono molto legati ai miei figli. Ci sono le videochiamate, è vero, ma non è la stessa cosa. Mio nonno non riesce a guardare mio figlio perché si mette a piangere». Cosa fa nel tempo libero? «Appena torno a casa gioco con i miei figli, Caetano che ha un anno ed è nato in Argentina, e Cristoval, che è nato a Empoli e ha tre anni. Con la tecnologia non ho un buon rapporto. Ho un tablet, ma l’ho comprato cinque anni fa. Lo uso più per ascoltare musica». Come è arrivato a Palermo? «Avevo fatto una grande stagione alla Lucchese. Ho pensato che avrei trovato squadra facilmente. Poi passava il tempo e non arrivava nulla. Ho chiamato il mio procuratore e gli ho detto che sarei tornato Argentina. Sono arrivato il giovedì a casa, la domenica mi ha chiamato e mi ha detto che sarei dovuto partire subito perché mi aveva cercato il Palermo. Facile a dirsi, ero nella Pampa a sei ore di macchina da Buenos Aires e sono partito l’indomani».
Con chi le sarebbe piaciuto giocare? «Zidane, mi mettevo a guardare il Real Madrid solo per vedere lui».