L’edizione odierna de “La Repubblica” si sofferma sull’app sperimentata in Corea. Potrebbe consentirci di recuperare qualche libertà di movimento, perché se sai chi sono i contagiati e puoi tracciare i loro spostamenti, anche quelli passati, tutto diventa meno difficile. Un riferimento potrebbe essere la app appena rilasciata dal Mit di Boston: si chiama Private Kit: Safe Paths. E si propone di rallentare la diffusione del contagio senza rinunciare alla privacy. Funziona così: un contagiato rilascia solo agli operatori sanitari i dati degli spostamenti registrati dal telefonino negli ultimi 28 giorni, questi ricostruiscono spostamenti e contatti che vengono a loro volta contattati per un test; nel frattempo le informazioni del paziente non lasciano mai lo smartphone. Secondo uno studio pubblicato da un gruppo di ricercatori di Big Data di Oxford qualche giorno fa, «l’epidemia può essere bloccata» e lo dimostra la matematica. Le condizioni sono un tracciamento dei contatti sufficientemente rapido, efficace, e su grande scala. «Il modo migliore di farlo», conclude lo studio, «è una app». Intanto nel Regno Unito, che è stato fra gli ultimi paesi a chiudere le porte al coronavirus dopo averlo minimizzato, una app ha appena debuttato anche se sembra avere uno scopo diverso. Si chiama Covid Symptom Tracker e chiede ad ogni utente di inserire tutti i propri dati e di rispondere ad alcune domande sulle condizioni fisiche e l’uso di farmaci e l’obiettivo è di avere un monitoraggio in tempo reale dei possibili sintomi del virus da incrociare con i casi scoperti in tempo reale. Ma il modello coreano è un’altra cosa. Vuol dire usare il segnale satellitare che sta negli smartphone (il Gps) e i dati dei social network.