L’edizione odierna de “La Repubblica” riporta le dichiarazioni di alcuni protagonisti della lotta contro l’emergenza Coronavirus. “Buongiorno dottore, abbiamo accettato la sua domanda, ecco le opzioni”. Giuseppe Anzelmo, medico di Ventimiglia di Sicilia, ha risposto senza esitare alla domanda della regione Lombardia: «mandatemi dove c’è più bisogno». E a 27 anni, si è licenziato da un posto sicuro da medico prelevatore, ha mollato i libri per la specializzazione in cardiologia e ha raggiunto il fronte italiano contro il coronavirus: l’ospedale Asst di Crema, la zona ” rossissima” della guerra che l’Italia e il mondo combattono da settimane, dove gestisce 12 pazienti intubati, in una sorta di terapia sub intensiva. «Non riuscivo più a studiare ascoltando quei bollettini di guerra, vedendo in tv o nei forum dei medici i colleghi esausti e altri che si ammalavano, così ho risposto al bando straordinario della Lombardia – racconta Anzelmo – quando hanno accettato non ci credevo, ero spaventato, ma ho fatto un esame di coscienza, è stata una scelta di cuore, il mestiere che ho scelto è aiutare le persone». Il 16 marzo, il medico siciliano, che si è laureato a Palermo l’anno scorso, era già sul traghetto destinazione Genova, il senso di marcia opposto dei coetanei che nelle stesse ore cercavano rifugio in famiglia al Sud. Il 18 marzo, otto giorni fa, è entrato nella trincea del coronavirus. «È uno scenario da guerra. In sette piani di ospedale, dove è rimasta solo la ginecologia, ho visto persone in corridoio, colleghi estenuati dai turni, il nome di una collega nella lista dei positivi poco dopo il tampone – racconta Anzelmo – ho fatto un turno di affiancamento con il primario, poi mi hanno assegnato 12 persone in un sub intensiva, intubati, li ho già assistiti per due notti con due infermiere, leggo l’emogas analisi, sono tutti tra i 70 e gli 85 anni, molti hanno delle patologie, li vedi e sembra che stanno bene. Ma in ospedale ho visto purtroppo persone morire». «Se non entri bardato in ogni angolo del corpo ti ammali – dice ancora Anzelmo, che ogni giorno indossa la tuta usa e getta, guanti e mascherina – i respiratori nebulizzano virus nell’aria, per precauzione durante i turni sto fino a dieci ore senza mangiare, bere e andare in bagno, disinfetto tutto in continuazione, ma ho superato la paura iniziale, mi avvicino ai pazienti, parlo con loro, sono isolati dalla famiglia». Lui sta in albergo, poco distante, dove sono arrivati i 53 medici cubani che la sanità lombarda impiegherà nel presidio covid, appena realizzato nel parcheggio con le tende da campo e tutta l’attrezzatura. «Li ho conosciuti e sono spesso con loro, perché parlo un buon inglese e faccio un po’ da interprete», aggiunge ancora Anzelmo. Certo non se lo sarebbe mai immaginato quando si è iscritto a medicina alcuni anni fa: «In questo mestiere impari molte cose lavorando, studiavo per inseguire il sogno di entrare in cardiologia, adesso resterò qui fino alla fine dell’emergenza, è il mio carattere e dovevo fare la mia parte». A tanti chilometri, a Ventimiglia di Sicilia, ci sono i genitori. «Erano molto preoccupati, ma quando sono arrivato a Crema, mio padre mi ha detto che al mio posto avrebbe fatto lo stesso. E che è orgoglioso di me». Giovanni Ribuffo, 49 anni, è una guardia giurata che lavora al pronto soccorso dell’Ospedale Cervello, il campo di battaglia della guerra al virus, dove arrivano quasi tutti i casi positivi o sospetti positivi di Palermo. Ma è soprattutto un padre che tutti i giorni vive con la paura di divenire veicolo di contagio per le sue bimbe, così una decide di non vederla e all’altra a casa non si avvicina neppure. «Mi scuso per la voce», dice al telefono, si è appena svegliato dopo aver fatto il turno di notte in ospedale. Orario 21- 3 del mattino. Prima di scendere ha aiutato un po’ in casa, con la cena e le pulizie, ha provato a rassicurare la famiglia. Come fa tutte le volte che si reca al lavoro in questi giorni. «Cerco di tranquillizzarli: starò attento, i guanti li metto, ci vediamo più tardi. Poi vai lì e trovi una situazione difficile da gestire. Siamo senza protezioni, neppure i medici le hanno, ci sono le mascherine di carta che non servono a nulla, siamo a contatto con le persone e siamo in una condizione disperata». Ha passato tutta la notte fuori per evitare possibili contagi e infezioni «anche se faceva freddo – dice – quando sei lì devi mantenere la calma, devi dare sicurezza e protezione a medici e infermieri che lavorano. Perché questo va detto, la gente continua a venire, vengono in 3 o 4 per accompagnare una persona che sta male, se tu gli dici qualcosa devi farlo con la massima delicatezza. Ti senti bistrattato, sei un uomo civile con una divisa e una pistola, non hai la funzione di autorità, noi facciamo forza con la nostra esperienza, io lavoro in questo settore da 26 anni, ho imparato a entrare in empatia con le persone per far lavorare i dottori nel migliore modo possibile. A volte però capita che ti prendi un calcio o un pugno. E, anche lì, devi mantenere la calma». Passano così sei ore di lavoro. Arrivano diverse ambulanze, ogni persona con sintomi influenzali è una preoccupazione in più: « durante la notte ti fai tante domande, ti chiedi se vale la pena lavorare e rischiare la vita per uno stipendio misero e con un contratto nazionale della vigilanza privata scaduto da 5 anni. Ti rispondi che non hai altro, l’unica cosa che speri è di portare a casa il corpo integro da qualsiasi infezione » . Magari provi pure a far sorridere il personale di turno: c’è un po’ di nervosismo, è comprensibile». Sono le tre del mattino, il turno è finito, prima di entrare a casa Giovanni si toglie le scarpe e la divisa. « Mi sono fatto da solo un disinfettante con acqua, candeggina e alcol etilico, lo spruzzo sulla divisa e vado subito a fare la doccia, anche se sono distrutto per la stanchezza e per il freddo preso». Prima di mettersi a letto guarda la piccola di cinque mesi dormire, da lontano: «non la bacio, non la prendo in braccio, ti senti impotente».