“Della finale di Coppa Italia tra Palermo e Juventus del 20 giugno ’79 ho una percezione scontornata; quel giorno mio fratello festeggiava i suoi otto anni e la cronaca in bianco e nero della partita si mescola nella memoria ai calzoncini fritti radunati a piramide sulla guantiera di cartone, il gol del vantaggio di Vito Chimenti – i baffoni, la pinguedine, la “bicicletta” in quegli anni disperatamente imitata sul cemento di piazza De Saliba, il pallone che se ne andava sempre altrove – affiora per un istante dal giallo dell’aranciata nei bicchieri di plastica e poi scompare, a disputare a Cesare Gagliano – otto anni e mezzo – un’ultima pizzetta bruciacchiata credo fosse il centrocampista, pure lui baffuto, Carlo Osellame, mentre chi inseguiva lungo il corridoio tal Christian Gorgone – nove anni – era senz’altro il mondellano Ignazio Arcoleo. So però che quel giorno il Palermo rimase in vantaggio fino al pareggio di Brio a pochi minuti dalla fine, e poi capitolò nei supplementari quando Causio segnò la rete della vittoria bianconera, inaugurando decenni di nostalgie estemporanee, di rammarichi e di congetture (Se solo Veneranda avesse deciso di… Se Chimenti avesse giocato anche il secondo tempo…): il gorgo inesauribile del rimpianto palermitano. Di Palermo-Juventus dell’agosto ’84 – turno eliminatorio di Coppa Italia, sei a zero per la Juventus: De Vitis e Maiellaro in campo, alcune migliaia di spettatori sugli spalti della Favorita, tutti unanimemente ammutoliti – ricordo ancora meno. Invece l’anno successivo – 1 settembre ’85 – ero allo stadio, si giocava di nuovo per la Coppa Italia e la Juventus vinse tre a uno, non ho memoria dei gol ma solo di Michel Platini che pur di non varcare il rettangolo d’ombra che dalla tribuna coperta si proiettava su un frammento di prato amministrava il gioco restandosene nel tiepido, tra indolenza e noncuranza, non correndo ma corricchiando – dove il suffisso valutativo vuole avere la medesima sfumatura di disincanto che Carmelo Bene in Hamlet Suite conferiva al suo «E vivacchio… vivacchio…», quello di Platini essendo un ennui circostanziato, canicolare, fondato sulla coscienza che l’unico avversario da temere non era la squadra di Angelillo ma il sole pomeridiano ancora alto e incandescente, e in ogni caso gli eventuali palloni perduti sarebbero stati recuperati – da un Bonini, da un Manfredonia – e dunque era tutto marginale e reversibile, relativamente serio (a posteriori penso che sia proprio questo ad avermi fatto diventare, dopo i mondiali dell’82, juventino: la consapevolezza di Platini, in lui sempre palese, di come le cose all’apparenza centrali fossero in realtà laterali, la sua capacità di convertire il titanico «Après moi le déluge» di Madame de Pompadour in un più modesto e chiarificatore «Après moi seulement un peu de pluie», perché quasi tutto ciò che c’è non è altro che inezia, equivoco, minutaglia: per il francese l’intero fracasso dell’esistenza – compresi i novanta minuti da trascorrere sul prato assolato della Favorita a fine estate ’85 – era solo, con Shakespeare, molto rumore per nulla). Per una ventina d’anni Palermo e Juventus non si sono più incontrate; tra fine anni ’80 e primi ’90 mi capitava ogni tanto di andare allo stadio, dove in piedi sulle gradinate osservavo in silenzio le evoluzioni di Orazio Sorbello, di Santino Nuccio (che alla Juve segnò un gol in rovesciata, bellissimo, ma era la Juve Stabia), di Felice Centofanti – e intanto il tempo passava tra radiazioni e penalizzazioni, la C/2, la C/1, la B, il ritorno in A, di nuovo la B, di nuovo la A, gli sforzi e la fatica, ogni tanto qualche rarefatta soddisfazione ma in generale un senso di inerzia, di accidia, fino a raggiungere questo presente snervato e circolare in cui un presidente – assorto in un suo misterioso campionato interiore – consuma allenatori come Crono divora i figli, regalando alla città il grottesco (l’ennesimo) di una squadra in cui la rosa dei tecnici è in esubero rispetto a quella dei giocatori. Come sempre nel calcio, Palermo-Juventus 2016 mette a confronto non solo due squadre ma due percorsi se non due destini: da Torino arriva una massa implacabile che, se anche ogni tanto stona, appare come un organismo calcistico prossimo alla perfezione; il Palermo, se anche ogni tanto non stona, tira a campare, potremmo dire che vivacchia, ma – se anche siamo lontani dal vivacchiare amletico di Carmelo Bene così come dal corricchiare nella penombra di Platini – c’è lo stesso, in questo disincanto, qualcosa che affascina. Qualcosa che forse non dice solo della squadra oggi allenata da… da… da… («Da Da Da» lallava nel 1918 Tristan Tzara, non immaginando che cent’anni dopo, continuamente incerti su un nome, i palermitani sarebbero diventati surrealisti), ma di una città intera, dei suoi paradossi, dei suoi rimpianti: di quel complicatissimo destino che è il suo presente”. Questo quanto si legge su “La Repubblica”.