Repubblica: “Il patron verghiano che distrugge tutto per tenersi “la roba””
“Nè tragedia né farsa. Nei giorni del suo interminabile autunno palermitano, che col closing mai closedha registrato l’ennesimo passaggio, Maurizio Zamparini rimane in mezzo al guado fra i due estremi dell’arte drammatica. La sua recita a soggetto, quest’improvvisare la sopravvivenza quotidiana come fosse un’esibizione da funamboli davanti alle auto in coda ai semafori, non ha nemmeno più la funzione di strappare qualche altro giorno alla pazienza popolare. Ha smesso di generare malanimo. Perché ormai la gente rosanero è stata presa per stanchezza. E mostra verso il patron rosanero lo stesso atteggiamento di quel tifoso interista che una ventina di anni addietro espose al Meazza uno striscione da leggenda: «Non so più come insultarvi». Non va nemmeno allo stadio, anche perché da mò è venuto a mancare l’ultimo motivo valido per presentarsi sugli spalti del Barbera: contestare Zamparini urlandogli in faccia tutta la rabbia della passione ferita. Niente da fare, sarebbe tempo perso. Perché lui non va allo stadio da un tempo del quale s’è persa memoria. Assente dal luogo in cui si celebra il rito del consenso e del dissenso fra un leader calcistico e il popolo.
Tanto più che lui, leader, non ci s’è mai sentito. La leadership è qualcosa che si conquista sul campo con la prova, e poi va mantenuta grazie alle prove successive. E invece questo signore venuto dal Friuli con piglio coloniale ha tenuto a essere sempre e soltanto un padrone. Uno che del consenso se ne infischia.
Chi mai ha bisogno del consenso popolare per possedere una cosa di cui è legittimo proprietario? Così ragiona lui. Ha comprato un oggetto, il Palermo, e ne fa ciò che vuole. Persino mandarlo in malora, se ritiene che quell’oggetto abbia cessato un ciclo di utilità, e se farlo andare in malora è l’ultima utilità attraverso cui l’oggetto possa appagare il suo ego.
Così è sempre stato, per Zamparini, nel mondo del calcio. A Venezia come a Palermo. E casomai fosse necessaria un’altra conferma di questo suo atteggiamento verso il pallone e i colori rosanero, lo s’è avuto nel giorno di quella pietosa conferenza stampa congiunta tenuta assieme al pre-presidente (s’era mai vista una figura del genere?) Paul Baccaglini. Allorché un giornalista chiese a Baccaglini quale fosse la cifra di compravendita della società rosanero, e lì Zamparini intervenne di gran fretta per dire che quelle informazioni erano «cazzi miei», e che se gli fosse girato avrebbe dato via il Palermo «pure gratis ». Perché il Palermo è roba sua.
E proprio questa riduzione a “roba” di una società di calcio, e di tutto ciò che a essa è legato (storia, tradizione, identità, cultura, passione, comunità), è il vero indicatore del mood che porta il declinante Maurizio Zamparini a governare con mano volubile le cose rosanero. Si comporta come se fosse Mazzarò, il personaggio della novella di Giovanni Verga che trovava inconcepibile la separazione fra sé e gli oggetti accumulati nel corso di una vita. Perché quegli oggetti erano diventati la vita medesima di un uomo incapace di guardare oltre la dimensione del possesso, assolutamente refrattario a pensare che tutta quella “roba” potesse sopravvivergli. E per questo prendeva a bastonate ogni suo avere, con l’impeto di ammazzarlo prima che fosse egli stesso a lasciare la vita terrena.
Lo Zamparini di oggi somiglia tanto a quel personaggio verghiano. Accecato da un impulso di morte che per contagio viene proiettato sulle cose. Anche perché davvero si ha l’impressione che il Palermo sia l’ultima roba in grado di dare un senso ai suoi giorni.
Cosa diventerebbe la sua vita, il giorno che Maurizio Zamparini dovesse andare fuori dal calcio? Ecco il vero interrogativo, cui egli stesso ha paura di rispondere. Perché meglio di tutti sa che fuori dal calcio la sua dimensione pubblica sparisce.
Niente più titoli sui giornali, niente più interviste, niente più numeri da circo a “La Zanzara”. Credete sia davvero pronto per rinunciare a tutto ciò? Per lui sarebbe la morte civile. E allora, molto meglio far morire la roba. O garantirle quel minimo di vita stenta che serve a lui per dare un senso ai giorni del declino”. Questo ciò che si legge sull’edizione odierna de “La Repubblica”.