L’edizione odierna de “La Repubblica” si sofferma sulla lotta del mondo contro il Coronavirus. Nessuno si vergogna a dirlo, ma dopo un paio d’ore di lavoro «si sente forte il nostro odore, si puzza terribilmente perché siamo dentro a queste tute impermeabili, si suda moltissimo…». Non è solo il sudore, è anche la tensione nervosa, che non fa dormire neanche a casa, per chi riesce a tornarci a fine turno. Giorgio Venturelli ha 41 anni, è infermiere di terapia intensiva al Policlinico San Donato. In mezza giornata, lui e i suoi colleghi hanno trasformato l’area terapia intensiva cardiologica in reparto Covid-19, ci hanno sistemato i primi tre pazienti, e ne aspettano una decina per la sera. «Sono tutti sedati, e intubati, così ci arrivano. Hanno la patologia più grave, cioè la polmonite. Li sistemiamo tutti a pancia in giù perché la pronazione è una tecnica che aiuta la respirazione. E sono nelle nostre mani, oltre che in quelle dei medici, ma siamo noi che li tocchiamo e curiamo». In queste mani, coperte da doppi guanti, ci sono così tante vite che è difficile tener dietro ai conteggi, molte vite che dipendono dalla loro capacità di saper fare bene le cose, dall’attenzione alle procedure, dalle regole. «Ci vogliono regole, per tutti. Per noi sono indicazioni particolari, perché dobbiamo proteggerci», troppo importante questo lavoro e Isabella Fontana lo sa benissimo. Fontana è coordinatrice sanitaria generale di Niguarda, con uno staff di 26 infermieri. Un marito che lavora in un supermercato, un figlio che fa design di automobili. Ci sono le famiglie, dietro a queste persone, «se alla sera torni a casa parli per forza di quello che hai fatto e visto», e importi anche le regole: «Lavarsi bene le mani, stare a distanza di sicurezza, niente baci e abbracci…». Poi c’è la procedura per vestirsi, in questi reparti si entra solo se bardati a dovere, ma la cosa più difficile è uscirne, e Fontana lo spiega così: «La svestizione è la parte più importante, tant’è che la si fa in due per non sbagliare. Uno ripete le cose da fare, l’altro esegue, soprattutto perché è molto stanco, ma la sequenza va rispettata alla lettera per evitare contaminazioni». Dunque, prima si toglie un paio di guanti, «poi ci si toglie lo schermo facciale, che andrà poi disinfettato a dovere. Poi il camice, che va eliminato in un sacco apposito per rifiuti speciali. Poi si tolgono i calzari, poi la mascherina, poi le cuffie, infine i secondi guanti, tutto da eliminare in modo sicuro». Solo a quel punto, ci si può disinfettare le mani.
«Vivere così è molto pesante», dice Alessandro Galazzi, 32 anni, infermiere alla terapia intensiva del Policlinico: 4 rianimazioni, ognuna con una zona rossa, e ne stanno preparando una quinta. «La zona rossa, che ospita i malati di coronavirus, è blindata e delimitata. Non si esce se non dopo 4-5 ore, e durante quel tempo non puoi bere, mangiare, andare in bagno, toccarti la faccia. Non si riesce a parlare bene, per via della maschera. Correre, muoversi… Siamo impacciati dalle tute pesanti e idrorepellenti». La pausa si fa ma dipende da quanta gente c’è a disposizione per sostituirti. «Può durare mezz’ora, a seconda se ci sono altri colleghi a coprire ». In quella mezz’ora si va in bagno e si beve, la sete è tremenda, «e magari chiamo la mia famiglia, che è sempre preoccupata». Oppure, «si fa da supporto esterno a chi è dentro, magari chiedono apparecchiature, farmaci, materiali, che gli passiamo nella zona filtro».
Luisa Venneri, 53 anni, caposala del pronto soccorso del San Carlo: «Anche noi ci ammaliamo. Scopri che qualcuno risulta positivo… la preoccupazione è tanta, io faccio questo mestiere da 25 anni. Guardo i miei infermieri, ieri mi hanno chiesto di poter avere il supporto psicologico. Tutti abbiamo genitori anziani o bambini a casa, e se anche prendiamo tutte le precauzioni possibili, può sempre capitare il momento di stanchezza».