L’edizione odierna de “La Repubblica” si sofferma sulla situazione relativa al Chelsea e Abramovich.
Tra la fine di settembre del 2016 e Antonio Conte, dopo il brillante Europeo con l’Italia, aveva cominciato la stagione col Chelsea. Non benissimo. Due sconfitte consecutive, in casa col Liverpool e 0-3 dall’Arsenal, sembravano aver bruciato il capitale iniziale di entusiasmo. Ci eravamo dati appuntamento per un’intervista a Cobham, il centro sportivo del club, e malgrado la decisione dei bookmaker di sospendere le scommesse sul suo esonero — pessimo segnale — Conte aveva confermato. «Ci vediamo alle 13 in sala stampa». Telecamere, microfoni, seggiole, sfondo. In mezzo al solito groviglio di cavi compare alle 12.50 il press officer del Chelsea. «Sorry guys, Antonio è in ritardo e ne avrà almeno per un po’». Gli sguardi perplessi si sciolgono davanti alla seconda notizia. «È piombato a sorpresa il boss, non succede spesso. Vi faccio arrivare dei panini».
Riempiamo l’attesa chiedendoci se di là, nella clubhouse elegante e minimalista, si stia consumando la resurrezione o la defenestrazione di Conte. Il tempo scorre lento, dopo un paio d’ore si esce a prendere aria. Roman Abramovich sta attraversando proprio in quel momento il parcheggio, assieme a un amico. Ridono, salgono su una macchina sportiva nera, guida proprio lui, nessun autista. Di lì a dieci minuti Conte ci raggiunge. È allegro anche lui. Non soltanto è salvo, ma a dirla tutta ha la sensazione di aver conquistato il suo principale. «Ha voluto sapere tutto sulla dieta, sulla mia mania di vietare le bevande gassate, e su cosa cambia difendendo a quattro come hanno sempre fatto i suoi allenatori oppure a tre come voglio fare io. Un bel colloquio. Anzi, un monologo visto che lui ha quasi soltanto ascoltato. Però alla fine mi ha detto di continuare così, perché mi vede convinto». Quell’anno Antonio Conte vinse la Premier con 7 punti di vantaggio sul Tottenham di Pochettino e 15 sul Manchester City di Guardiola.
Per il resto della giornata non smisi di pensare ad Abramovich al volante sulle tangenziali di Londra Cobham è poco a sud di Heathrow — con un amico accanto e senza guardie del corpo (a meno che un auto carica di exspetsnaz non lo attendesse fuori dal centro sportivo). Suonava strano perché l’altra volta in cui mi era capitato di incrociarlo era successo nella città che in questi giorni è al centro del mirino russo: Kharkiv. Europeo 2012: il gruppo di giornalisti italiani volato fin lì per seguire Germania-Olanda va a pranzo al ristorante dell’Hotel Palace. In attesa del menu c’è agitazione in sala: il maître sta implorando alcuni clienti di liberare i tavoli. La spiegazione arriva in fretta: una comitiva di una decina di persone, quattro adulti con diversi ragazzini — tutti maschi — prende possesso del tavolo più lungo del locale. Tre adulti sono noti: Roman Abramovich, Eugene Tenenbaum, direttore operativo del Chelsea e ucraino di Kiev (oggi il particolare assume rilievo), Avraham Grant, l’allenatore israeliano subentrato a Mourinho dopo l’esonero del 2007, consigliere tecnico e amico personale dell’oligarca.
La cerchia di tavoli adiacenti è stata svuotata. Nulla li distingue da qualsiasi gruppo di amici in gita con i figli, in apparenza. Il primo di noi che va fuori a fumare, però, scopre che dietro ai pesanti tendaggi che fungono da separé un plotoncino di gorilla armati veglia sul loro pasto. «Pensa veloce. Parla veloce. Fa quel che dice». Qualche mese fa un collaboratore di Abramovich ha descritto così il suo boss a L’Equipe, e non c’è dubbio che la rapidità operativa del più famoso degli oligarchi sia alla base del suo successo. Diciannove anni fa acquistò il Chelsea in un week-end, e cambiò il calcio per sempre: emiri, sceicchi, altri ricconi e addirittura Stati sovrani hanno attraversato lo Stargate da lui aperto, trasformando il pallone nello strumento di soft power più efficace che si sia mai visto.