L’edizione odierna de “La Repubblica” si sofferma su Matteo Messina Denaro e il secondo covo trovato.
Un paese come covo. Il rifugio dell’ultimo stragista di Cosa nostra non era solo nell’appartamento di vicolo San Vito 10 e neppure nella casa di via Maggiore Toselli 34. Matteo Messina Denaro non si nascondeva in un bunker. Non viveva in un casolare come Bernardo Provenzano, né in una villa come Totò Riina e neppure sotto terra come Michele Zagaria.
La sua vita da latitante scorreva tranquilla in un chilometro quadrato e in un reticolo di strade dove si sentiva al sicuro. Abitazione, deposito, passeggiata, medico, bar, spesa. È tutto qua, a Campobello di Mazara. Undicimila anime nel cuore della valle del Belìce che, alle 9 del 16 gennaio, hanno scoperto di aver convissuto con il boss più ricercato d’Italia. Qualcuno lo ha protetto consapevolmente, con favori, omertà, protezioni. Altri erano ignari di tutto e gli hanno fatto, inconsapevolmente, da scudo. Nessuno si è ribellato.
Il municipio è in via Garibaldi. Chissà quante volte il geometra Andrea Bonafede è passato sotto quelle bandiere dopo essere uscito da vicolo San Vito, ultimo domicilio di quel grigio signore che ha seminato morte in tutto il Paese. E adesso andiamo al bar. Ce n’è uno in via Vittorio Emanuele dove un’indagine ribattezzata “operazione Hesperia”, che un anno fa portò in carcere 35 persone, ha documentato incontri di fedelissimi del boss. Le telecamere nascoste dei carabinieri li riprendono e li ascoltano. Spesso restano in silenzio, ma c’è anche un momento nel quale fanno riferimento al padrino allora latitante.