Repubblica: “Coronavirus Italia, Bucci «Invertire la rotta o sarà peggio di marzo. Lo dicono i numeri»”
L’emergenza Coronavirus si fa sentire sempre di più in Italia, ieri quasi 11mila contagi, la pandemia esplode nella penisola e adesso tutti s’interrogano su cosa fare. L’edizione odierna di “La Repubblica” fa il punto della situazione attraverso le parole di Enrico Bucci, Professore di Biologia alla Temple University di Philadelphia.
Di seguito la sua intervista:
«Ci siamo rimessi su un binario pessimo e stiamo per affrontare un inverno molto duro.
Ma spero che non si ricorra al lockdown, che è l’ extrema ratio , una sorta di sconfitta». Non sono incoraggianti le analisi condotte da Enrico Bucci. Professore di Biologia alla Temple University di Philadelphia, segue l’evoluzione della pandemia sin dall’inizio, studiando i numeri dell’emergenza e monitorando le ricerche in corso nei laboratori di tutto il mondo per arrivare a una terapia o a un vaccino anti-Covid.
Professor Bucci, cos’è che le fa prevedere un inverno in trincea contro il coronavirus? Il numero di nuovi contagi che ha sforato il tetto simbolico dei 10mila al giorno?
«No, sappiamo che i nuovi casi dipendono da troppi fattori, a cominciare dal numero di tamponi che si effettuano. Gli unici dati attendibili sono quelli relativi ai ricoveri, ai ricoveri in terapia intensiva e ai decessi».
Cosa ci dicono questi dati?
«Che la situazione è peggiorata tra il 4 e il 5 di ottobre. In quel momento le curve di ricoveri e di ricoveri in terapia intensiva hanno cambiato pendenza e hanno ripreso a salire in modo preoccupante. Se proiettiamo l’andamento attuale su fine ottobre, ci ritroveremo con 1.500 ricoverati nelle terapie intensive e 12mila pazienti Covid nei reparti ordinari.
Ma attenzione: è una proiezione di quello che accadrebbe se l’andamento rimanesse l’attuale».
E se invece fossimo riusciti contenere la diffusione del virus come era successo fino al 4 ottobre?
«Proiettando a fine mese quelle curve meno pendenti, vediamo che il 30 ottobre avremmo avuto 510 casi in terapia intensiva e circa 6.000 ricoverati sintomatici».
Nel complesso cosa ci dicono questi numeri?
«Che il “liberi tutti” dell’estate ha rimesso in moto la circolazione del virus che era stata fermata con il lockdown di primavera: lo dicevano chiaramente i numeri in crescita ad agosto. Poi il 16 settembre abbiamo visto un rallentamento, dovuto probabilmente al rientro dalle vacanze e a una riduzione dei contatti. Ma dal 4-5 ottobre le curve hanno ripreso a salire in modo preoccupante».
A cosa è dovuta l’impennata di ottobre che emerge dai suoi grafici?
«Probabilmente è stata la ripresa delle attività lavorative, i contatti prolungati con persone diverse.
Penso soprattutto ai mezzi di trasporto: stare venti minuti in cento persone in un vagone della metropolitana moltiplica le probabilità di contagio. Si può anche avere la mascherina chirurgica, che protegge gli altri e non noi stessi, ma se c’è un superspreader nel vagone che magari la mascherina non la indossa o la indossa male l’epidemia va nelle case e nelle scuole».
La soluzione è il lockdown natalizio di cui si comincia a parlare?
«Va evitato ad ogni costo. La letteratura scientifica è chiara: per massimizzarne gli effetti, il lockdown andrebbe fatto prima possibile. Insomma, dovremmo già essere in lockdown, perché se lo si adotterà tra 4 o 5 settimane la discesa sarà molto più lenta.
Sappiamo però che vanno conciliate due esigenze ugualmente importanti: la tutela della salute degli italiani e la tenuta sociale ed economica del Paese. L’Italia non è la Cina, non ha la forza per imporre due lockdown in un anno».
E allora? Chiudere le scuole?
«Non sono per la chiusura, ma per i turni sì. E non solo per le scuole, anche per tutte le attività lavorative dove questo è possibile. Qualcuno va in classe (o in ufficio) la mattina, gli altri il pomeriggio e altri ancora si collegano via internet. Dobbiamo diminuire il numero di persone che usano simultaneamente i mezzi di trasporto. Non va ridotta la libertà di spostamento delle persone, ma la loro densità in uno stesso luogo».
Si parla anche di chiusure mirate.
«Certamente ci saranno chiusure localizzate di settori produttivi di aree del Paese. Sono però preoccupato dalle chiusure fai-da-te, non basate su criteri condivisi. Chiudere a macchia di leopardo, senza un coordinamento nazionale, è del tutto inutile».
Se si intervenisse subito, gli effetti sui numeri dell’epidemia sarebbero immediati?
«No, per le prossime due o tre settimane i numeri continueranno a crescere, indipendentemente da quello che faremo. Possiamo solo attrezzarci per curare meglio le persone che si ammaleranno».
E più a lungo termine?
«È ormai sicuro che affronteremo l’inverno senza poter contare su un vaccino. E il picco potrà essere più alto che a marzo, perché questa volta l’epidemia sta partendo simultaneamente in tutta Italia, non solo in Lombardia. Dunque come cittadini ci dobbiamo preparare a un periodo molto duro, che potrebbe però rivelarsi un momento di unità, di mutuo soccorso dal punto di vista sociale. Ma dobbiamo anche esigere che le istituzioni mitighino al massimo i danni alla salute e all’economia, senza perdere tempo e decidere in ordine sparso. Finora sono state manchevoli, facendosi trovare impreparate alla seconda ondata, e hanno scaricato la responsabilità soprattutto sulle spalle delle persone».