L’edizione odierna de “La Repubblica” si sofferma sullo stop dei distributori scongiurato. Maurizio Casasco è dal 2012 presidente della Confapi, l’associazione delle piccole imprese, è amministratore delegato della Cds, un’azienda bresciana che opera nel settore della diagnostica strumentale (una settantina di dipendenti e 10 milioni di fatturato) ed è medico dello sport. Il suo, dunque, è un punto di vista particolare: quello dell’imprenditore ma anche dell’operatore della sanità.
Chiudere ora per molte piccole imprese può significare non riaprire più, secondo molti suoi colleghi. Lei non è d’accordo? «In questo momento la priorità è contenere il contagio del virus.
Possono restare aperte solo le attività essenziali, l’alimentare, la farmaceutica e la manutenzione direttamente collegata».
E le filiere? Le imprese sono tra loro collegate dividendosi quote del processo produttivo.
«Essenziale vuol dire essenziale, non bisogna giocare con le parole. Non facciamo le cose all’italiana usando le filiere come scusa per allargare le maglie. Chiudere per dieci giorni non è un problema, stiamo discutendo del nulla».
Sarà, ma intanto in molte fabbriche si sciopera, le confederazioni sindacali hanno minacciato l’astensione generale e la Confindustria ha lanciato più di un allarme per gli effetti di una fermata totale della produzione. «Soprattutto in questa fase la coesione sociale è fondamentale.
Non credo che la soluzione possa essere lo sciopero ma neanche fughe in avanti. Ciascuno deve perdere un pezzo delle proprie richieste nell’interesse generale. Ci vuole responsabilità».
La Confindustria dice che con la chiusura di tutte le fabbriche perderemo circa 100 miliardi di Pil ogni mese. Voi di Confapi avete fatto delle previsioni? «Non mi pare utile farle. Sappiamo tutti che sarà una catastrofe dal punto di vista economico, ma lo sarà sopratutto se non individuiamo ora le soluzioni per il futuro. Questo dobbiamo fare anziché l’elenco di quel che perdiamo».
Prima delle sue proposte, però, mi dica cosa pensa, come medico e come imprenditore, del drammatico conflitto in atto tra lavoro e salute. Quale tra i due deve prevalere? «Non ho dubbi che vinca sempre la salute. Ma capisco che si debba trovare la geometria accettabile. Bisogna investire costantemente per creare condizioni di sicurezza nei luoghi di lavoro. In questi ultimi anni si sono fatti importanti passi avanti. Siamo messi molto meglio rispetto agli altri Paesi europei».
Lei cosa propone per far ripartire l’economia una volta finita la pandemia?
«Intanto bisogna abbattere la burocrazia. Basta con il garante della Privacy che ti impedisce, in questi giorni, di chiedere se un parente di un lavoratore ha la febbre. Basta con il codice degli appalti! Basta con la tutela delle Belle arti che blocca tutto».
Difficile che tutto questo, sempre che sia percorribile, possa essere varato in tempi rapidi. Per affrontare l’emergenza, invece, che cosa farebbe?
«Le imprese hanno innanzitutto bisogno di liquidità, da qui passa la ripresa. Giuste le mosse della Bce sul capitale delle banche ma credo che ci sia anche un altro tema che il governo deve affrontare al più presto. Va rafforzato il golden power per proteggere le nostre aziende strategiche, altrimenti diventiamo terra di conquista per i grandi gruppi stranieri».