Ravanusa, il day after tra lacrime e rabbia: “C’è chi sapeva tutto”

L’edizione odierna de “La Repubblica” si sofferma sulla tragedia di Ravanusa.

Un divano di pelle che si affaccia dalle macerie del secondo piano, panni stesi che nessuno raccoglierà, un phon con il cavo ordinatamente arrotolato. Sono frammenti di una quotidianità che non è più, quelli che l’esplosione di sabato sera a Ravanusa ha congelato. Mentre ancora si scava alla ricerca dei corpi degli ultimi due dispersi, Calogero Carmina, 88 anni, e suo figlio Giuseppe, di 59, dalle montagne di calcinacci, balconi sbriciolati, interi piani venuti giù saltano fuori una tovaglia un tempo a quadri bianchi, un cappotto ridotto a uno straccio, una sciarpa colorata, libri. Due donne aspettano e pregano. Eliana, la moglie di Giuseppe, ha gli occhi vuoti di chi non ha più lacrime. « Ridatemelo » , mormora. Nel suo saio bianco, prova a confortarla la cognata, suor Agata. Insieme, sperano di avere almeno un corpo da piangere.

Da due giorni lavorano per questo le squadre dei vigili del fuoco che si alternano su quella che era via Trilussa, mentre la folla assiepata dietro i nastri bianchi e rossi sta a guardare. Non sono curiosi. Nessuno tira fuori il cellulare per un video o una foto da postare sui social. Ravanusa conta a stento diecimila anime e tutti hanno qualcuno da piangere. Di tanto in tanto il suono della sirena spegne anche il brusio che accompagna la macchina dei soccorsi. Significa che i vigili del fuoco hanno sentito o trovato qualcosa o, meglio, qualcuno. Se le ruspe riaccendono i motori, era un falso allarme. Attorno alle 8 di ieri mattina non lo è stato. La squadra in quel momento al lavoro ha individuato un’area in cui sospettava ci fossero dei dispersi e ha chiesto l’intervento dell’unità cinofila. In servizio c’era Luna, labrador di sei anni, che insieme al suo conduttore è arrivata a Ravanusa dal comando provinciale di Palermo. Nervosa, ha fatto su e giù da quel cumulo di macerie varie volte. Un segnale. Le macerie sono state tolte strato dopo strato, come un sudario. Sotto, c’erano i cadaveri di quattro delle persone che mancavano all’appello.

Sono arrivati medici e infermieri del 118, carabinieri, barelle. Poi, con discrezione, i corpi sono stati portati nella scuola vicina. Appena ristrutturata, di un blu cielo quasi incongruo in mezzo a tanta polvere, è diventata centro operativo della macchina dei soccorsi. È lì, tra i disegni dei bambini e l’albero di Natale, che in una stanza trasformata in obitorio i parenti hanno dovuto riconoscere ufficialmente le vittime. «Non è un passaggio facile » , dice Giuseppe Infurchia, che per l’Asp di Agrigento coordina l’équipe degli psicologi. « C’è chi non ce la fa, rifiuta l’idea. Il figlio di una delle vittime ci ha messo 24 ore per decidere se vedere la salma » , spiega. « Qui tocchi la sofferenza vera, qualche strascico — sottolinea Gabriella Malaga, una delle volontarie dell’associazione di protezione civile “Psicologi per i popoli odv” — te lo porti dietro».