Ranieri: «Dybala riempie il cuore. Paulo mi piaceva già al Palermo»

Nel cuore del calcio italiano, Claudio Ranieri continua a essere una figura emblematica e stimata, ammirata tanto per il suo stile umano quanto per le sue competenze tecniche. Con una carriera lunga e variegata, Ranieri porta con sé un bagaglio di esperienze e successi che pochi possono vantare. Recentemente, ha condiviso riflessioni e aneddoti su questa straordinaria avventura in una intervista rilasciata a Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport. Uno dei punti focali dell’intervista è il ruolo di Paulo Dybala, un giocatore che Ranieri ha sempre ammirato sin dai tempi del Palermo.

Claudio, ti consideravano esperto già una ventina d’anni fa. «Io sono Benjamin Button…».
Ranieri sottolinea quasi tutte le risposte con una risatina, la sua inimitabile risatina complice: è l’allenatore del sorriso, della positività e della calma, il rasserenatore che nel 2007 fece dire a Enzo Bearzot, intervistato da Gianni Mura, «mi piace Ranieri, è una persona esperta e pacata, seria e civile. L’uomo giusto per la Juve».

Sei davvero tanto pacato, serio e civile? (Evito di chiedergli se sia l’uomo giusto per la Juve perché ha già dato e poi non è certo il momento).
«In apparenza, sì».

E lontano dalle telecamere?
«Anche. Sono quello che si vede, non so fingere».

È così facile associare il nome di Ranieri a uno stile, un genere, un universo. Ranieri umanissimo e fuori norma. Sempre la parola giusta, mai una fuori posto. Un’adesione alle squadre e ai luoghi simile a quella di Mourinho, ma meno rumorosa. «Mi vogliono bene a Valencia, a Cagliari, anche a Firenze, Napoli, Catanzaro e naturalmente a Roma, la mia Roma… le partite all’oratorio al Testaccio e San Saba».
La sua prima volta nel ’69. «L’anno della morte di Taccola, il 16 marzo, lo ricordo bene. Giocavo nella Roma Primavera, torneo di Sanremo».

L’indimenticabile torneo giovanile di Sanremo.
«Siamo entrambi… esperti».

Da allora sono trascorsi 56 anni, quaranta dei quali li hai passati su una panchina. Riesci ancora a emozionarti? Penso naturalmente a domenica sera, al derby.
«Sono emozioni forti, anche perché sono le ultime».

Vuoi dire che a giugno chiudi sul serio?
«È iniziata l’ultima tappa e quando pensi che sia finita, è proprio allora che comincia la salita».

…che fantastica storia è la vita. Sarà contento Antonello. Preciso: Venditti, non Alessandro.
«Ho capito di essere cambiato».

Dove e quando?
«All’Olimpico, quando veniva cantato l’inno di Antonello, io non salivo dal tunnel perché mi commuovevo, mentre adesso riesco a reggere l’emozione e, anzi, il canto dei sessantamila mi dà l’ultima botta d’energia».

E pensare che avevi annunciato l’addio alle armi.
«Mi credi se ti dico che negli ultimi mesi ho ricevuto più richieste che dopo il trionfo col Leicester? Quando mi sono accorto che c’era ancora voglia di Ranieri, la voglia è tornata pure a me, ma sapevo che l’avrei fatto solo per due squadre, Cagliari e Roma. Mi hanno tirato giù dall’Aventino».

La chiamata – annunciazione!, annunciazione! – quando è arrivata di preciso?
«Quel lunedì di novembre, mi telefonò Ghisolfi per dirmi che i Friedkin volevano parlarmi. Sono partito subito per Londra».

Volo di linea, giusto per non farlo sapere in giro.
«Ragazzo, non fare il furbetto. A Londra ho casa».

Durante il viaggio cos’hai pensato?
«Cos’altro avrei dovuto pensare? Avevano appena esonerato Juric, chiamano me e che pensiero posso mai fare? Claudio, si ricomincia».

Come va con l’inglese?
«Maccheronico, come sempre». E ride.

I Friedkin ti hanno capito.
«E io ho capito loro, hanno voglia di fare bene, di riportare in alto la Roma. Non parlano in pubblico? Perché, vedi altri americani, mi riferisco a proprietari di squadre, che rilasciano interviste o semplici dichiarazioni? Gli americani sono fatti così. Affidano i compiti alle persone che scelgono e se non vanno bene le cambiano».

Cartoni davanti alla porta chiusa e farewell forever.
«Non so nulla dei cartoni».

Come hai trovato la squadra?
«Come tutte le squadre che escono da un esonero. In questo caso addirittura due in pochi mesi. Giù moralmente, ma a posto fisicamente. Con Daniele e Juric avevano lavorato bene sul piano atletico. Io ho semplicemente portato le mie idee, ho provato a stimolare i ragazzi, siamo entrati presto in sintonia. Cosa significa entrare in sintonia? Pensare le stesse cose, dare tutto l’uno per gli altri. Giocare sempre alla morte. Sono uno che in allenamento pretende tanto, quando arriva la partita lascio libertà ai giocatori perché, se hanno lavorato bene, sanno come comportarsi sia difensivamente sia offensivamente. A ogni errore deve corrispondere una reazione, nessuno deve ripensare allo sbaglio che ha appena commesso. C’è tanto tempo ancora. Sbagliamo tutti, in campo, nella vita… Tempo fa lessi una frase che mi piacque parecchio».

Quale?
«Se un errore non è un trampolino di lancio, è un errore».

Tua moglie come ha preso il ritorno in panchina?
«Rosanna non vuole che si parli di lei, è super riservata».

Polverosi però mi ha detto che…
«Lascia perdere Alberto. E soprattutto mia moglie. È timida, come lo sono io».

Timido tu?
«Sì, io. Per questo non vado sotto la curva, eviterei volentieri anche le interviste. Ma non posso farlo, è lavoro. Adesso non parlerei con te, ad esempio…».

Nemmeno io, se è per questo.
«Ci tocca».

A proposito di salite, Claudio: ho dato un’occhiata alle ultime 8 partite della Roma, sono un delirio. Punti in fretta.
«So tutto, ho tutto chiaro. Ma ora le cose vanno meglio, la squadra ha recuperato l’autostima, è in fiducia».

Hai vinto il quinto derby su cinque: la prima cosa che hai pensato.
«Ero contento per i tifosi. La gioia che riesci a donare è più grande di quella che provi. Io non ho paura di dire le cose: abbiamo battuto una Lazio che sta facendo una grande stagione e un bellissimo calcio. Domenica ho visto una Roma diversa, una Roma che sa stare in campo. Molto distante da quella di Napoli, ma ero arrivato solo da un giorno e i nazionali erano appena rientrati. Il progresso, la crescita è notevole. A Napoli avevamo fatto una partita buonina, ma eravamo stati troppo timidi, non avevamo mai provato a vincere».

Da qui al 3 febbraio quanto e dove cambierete?
«Ho già una buona rosa, ma va completata perché tra poco giocheremo tre partite a settimana. Serve qualcosa in più, del resto si parla di mercato di riparazione e allora anche noi proviamo a riparare».
Qualcosa in più, ma anche qualcosa in meno.
«Ci saranno delle partenze, certo, e gli ingressi dovranno rispettare i parametri del Fair Play Finanziario».

Come vedi Dybala?
«Con il sorriso. Il sorriso è importante, chi arriva al campo col sorriso, come Paulo, facilita le cose e ti riempie il cuore. Dybala mi piaceva tanto già quand’era al Palermo».

Sbaglio o gli hai garantito la centralità che inseguiva da anni?
«Per me sono tutti centrali, devono esserlo. Paulo è di un calcio superiore, ora gioca tanto perché sta bene, ma va salvaguardato. Lo tolgo non appena lo vedo stanco. Nel derby lui e Dovbyk hanno fatto un lavoro eccezionale, contribuendo al successo in modo decisivo».

A Paredes e Hummels hai restituito spazio e dignità.
«A Paredes e Hummels non devi dire niente, loro sanno bene cosa fare e i compagni gli riconoscono la leadership, non a caso si appoggiano sempre su di loro».

«Nessuno aveva problemi con Ranieri, ma il giorno prima della partita ci allenavamo per giocare in un modo e il giorno dopo cambiava tutto». Lo disse Hasselbaink che hai allenato al Chelsea.

Ride. «Con me Hasselbaink ha segnato come mai in precedenza e anche in seguito».

Ogni volta che ti chiedono di Totti, del suo ipotetico – e aggiungo auspicabile – ritorno alla Roma, rispondi che gli telefonerai, che parlerai con lui. È una non-risposta. O hai trovato sempre occupato?
«È una non-risposta. Ma posso garantire che parlerò con Francesco, prima però dovrà capire cosa vuol fare da grande. Parlerò con lui, così come ho parlato con Daniele e vorrei tanto abbracciare Bruno Conti, che non vedo da troppo tempo».

Pensi che ci siano preclusioni dei Friedkin relativamente al ritorno di Francesco.
«Non ne abbiamo ancora parlato. Ma non penso, non lo so».