L’edizione odierna de “Il Tirreno” si sofferma sullo scandalo che ha coinvolto Lucarelli junior, finito in carcere per uno stupro di gruppo.
«Ero congelata, ho detto di no, che questo non poteva succedere. Mi sono sentita sporca, ho sentito il mio corpo come se non fosse il mio». Ingannata, violentata. Filmata, umiliata. Davanti agli investigatori c’è una ragazza di 23 anni, viene dagli Stati Uniti, è a Milano per studiare. Racconta della notte tra il 26 e il 27 marzo di un anno fa. Ha fatto serata con amici a “Il Gattopardo”, un locale in zona Sempione a Milano, riferimento di molti universitari ed Erasmus in città. È tardi, all’uscita non trova un taxi, perde di vista la sua amica e un gruppo di cinque coetanei si offre di accompagnarla a casa in macchina. Invece la portano a casa di uno di loro, Mattia Lucarelli, 23 anni, calciatore e figlio della bandiera del Livorno, Cristiano. Mattia è agli arresti domiciliari con l’accusa di violenza sessuale di gruppo assieme a un altro giocatore del vivaio livornese, Federico Apolloni.
Tre loro amici sono indagati per lo stesso reato, aggravato dall’aver approfittato della «temporanea incapacità psichica della vittima», che aveva bevuto. Una notte di divertimento, finita diversamente. Con la studentessa, difesa dall’avvocato Gaia Inverardi, che all’alba viene riportata a casa da Lucarelli e crolla sul pavimento, in lacrime, come dirà la sua coinquilina. Dopo qualche giorno, nonostante i «vuoti di memoria intervallati da flash», trova la forza di denunciare, «volevo essere sicura». E ripercorre quelle mezz’ore in balìa del gruppo. Sono le 3 del mattino di quel 27 marzo, la 23enne accetta un passaggio da cinque ragazzi ma si ritrova in una casa non sua. Nel frattempo, i cinque girano diversi video, alcuni realizzati nel tragitto in auto. Tra loro i ragazzi parlano e dicono frasi irripetibili, che mettono in luce le loro intenzioni. Lei ricorda di ritrovarsi nuda, in un appartamento che non era il suo, su una poltrona. «Io volevo andare a casa, non mi sono resa conto che mi stavano portando in un posto diverso. Non volevo andare in casa di quei ragazzi, anche perché avevo un fidanzato». Poi le violenze: «Ho solo capito che voleva avere un rapporto sessuale, così gli ho detto di mettersi il preservativo ma non ha voluto», racconta di uno degli indagati. La vittima ha parlato anche in incidente probatorio. E la delicata inchiesta della Squadra mobile milanese, guidata da Marco Calì, ha permesso di ricostruire il resto.
Come i cinque video della serata. «Qui parte lo stupro eh», dicono i protagonisti. Un filmato è girato in casa. Si sente Apolloni dire: «Se questa chiama la polizia c’inc… tutti». Sempre lui invita gli altri a togliere le chiavi dalla serratura d’ingresso, negli stessi minuti in cui la vittima cerca di difendersi: «Non bloccarmi, non sono un oggetto» dice lei. L’inchiesta condotta dalla pm Alessia Menegazzo e coordinata dal procuratore aggiunto Letizia Mannella ha fatto affidamento anche sulle intercettazioni. Tra cui una tra Apolloni e Lucarelli, col secondo che si chiede: «Credo che per stupro cioè comunque tu debba averci un livido». In un’altra intercettazione, Cristiano Lucarelli chiede al figlio: «I video ci sono?», e il giovane risponde: «Sì ma meglio di no, non si usano perché fondamentalmente manca l’unico vero che avrebbe chiuso ogni dubbio. Quindi ancora non l’abbiamo scampata ma sono molto fiducioso». Lo stesso ex bomber, ieri sera, con un video su Instagram ha difeso il figlio: «Se prima ero convinto che mio figlio fosse innocente, dopo avere letto gli atti rafforzo ancora più l’idea». Anche il loro avvocato, Leonardo Cammarata, fa sapere che il calciatore «è devastato e incredulo e dice che non c’è stata alcuna violenza». E annuncia il ricorso al Riesame per chiedere la revoca della misura cautelare. Ordinata dal giudice Sara Cipolla nei confronti dei due giocatori del vivaio livornese, «spregiudicati», incapaci di capire davvero la gravità dei fatti. Perché hanno abusato dello «stato di inferiorità psichica» della vittima. «Le modalità e le circostanze dei fatti-reato denotano una spiccata pericolosità sociale di chi è sottoposto a indagini, tale da rendere assai probabile la reiterazione di analoghi comportamenti».