Pastore: «A Palermo mi legano dei bellissimi ricordi. Con Ilicic ci siamo divertiti tanto»
Javier Pastore ha rilasciato una lunga e interessante intervista ai taccuini di ‘Diretta.it’, toccando diversi punti salienti della sua carriera.
Javier Pastore è, secondo le parole stesse di Diego Armando Maradona, un “maleducato del calcio” dentro del campo per il modo in cui giocava dominando la sfera con grande naturalezza. Al telefono, invece, si dimostra estremamente educato e allegro. E in questa chiacchierata esclusiva con Flashscore Italia, in occasione di un incontro con i tifosi parigini in programma a inizio novembre, ritorna sulla sua carriera, iniziata nella soleggiata Palermo, quando lo stesso Maradona lo convocò ai Mondiali del 2010 per farlo giocare con Messi, e che ha avuto il suo culmine nel primo grande Paris Saint Germain.
Javier, presto sarai a Parigi per ritrovarti con i tifosi, la vera essenza del calcio. Parafrasando il titolo del libro del tuo connazionale Diego Maradona (Io sono il Diego della gente), ti senti anche tu un giocatore di questo tipo?
«Come fai a non essere vicino alla gente che ti ama per quello che ami fare? Noi calciatori dobbiamo tanto ai tifosi, perché loro ci apprezzano in quanto tali. Non saremmo nessuno senza la gente, ed è per questo che mi piace stare tra i tifosi. È una ricompensa che ci diamo gli uni con gli altri».
Fu Maradona, che ti reputava un “maleducato del calcio” per il tuo talento naturale, a credere in te come calciatore convocandoti per la prima volta in nazionale, a pochi giorni dal Mondiale 2010.
«Fu un’emozione incredibile. Andai in Sudafrica allenato dal miglior giocatore della storia e come compagno di squadra avevo Messi, il miglior giocatore del momento. Ho avuto la fortuna di poter condividere tutto con loro, dalla colazione alla cena passando per gli allenamenti e tanti altri momenti, e avevo appena 20 anni…».
Ricordi qualche attenzione particolare da parte loro?
«Diego era dolcissimo con tutti noi. Alle undici di sera veniva a bussarci in camera e ci chiedeva come ci sentissimo, se i nostri familiari che ci avevano accompagnato in Sudafrica stavano bene. Si metteva a disposizione di tutti. E quel suo definirmi un “maleducato del calcio” aveva fatto tantissimo rumore (ride)».
Con lui hai in comune un passato in Italia. Nel Sud Italia, uno dei luoghi più sudamericani fuori dal Sudamerica.
«Arrivai al Palermo con tante aspettative, non dimenticherò mai l’accoglienza della gente all’aeroporto. Ricordo di aver vissuto tanto la città e la vicinanza della gente, con la quale mi potevo rapportare facilmente, essendo argentino. Palermo è una città stupenda, e li ho conosciuto anche mia moglie. Sono ormai 14 anni che siamo insieme e dico sempre che ho un pezzo di Palermo nel cuore».
Poi, nell’estate del 2011, lo storico trasferimento al Paris Saint Germain per 42 milioni.
«All’epoca era una cifra record per il Psg, dove arrivai come primo grande acquisto della proprietà del Qatar. Hanno creduto tanto in me e insieme al Palermo è la squadra che continuo a seguire con tanta passione».
Sentisti pressione per l’enorme esborso effettuato per il tuo cartellino?
«Assolutamente no. In realtà, in campo non ho mai sentito pressione, ho sempre giocato come mi veniva, in modo naturale. L’unica cosa alla quale pensavo era di giocare, non sentivo quasi nulla attorno a me, anche se poi tornando indietro vedendo le immagini mi rendo conto di aver vissuto dei momenti davvero strepitosi dal punto di vista calcistico».
Quel gol contro il Chelsea nell’andata dei quarti della Champions League 2013/14 fu lo zenit della tua carriera?
«Onestamente credo di aver giocato varie partite di livello, ma è ovvio che quell’azione fatta di vari dribbling culminata con un gol contro una grande squadra come il Chelsea segnò un momento indelebile, soprattutto perché mi avvicinò ulteriormente ai tifosi. Quando vidi le reazioni in video da parte loro, con gente che si metteva le mani nei capelli per l’incredulità della giocata rimasi sorpreso anch’io. Ed era in quel momento che avevo effettivamente realizzato di aver fatto qualcosa di magnifico».
A Parigi hai avuto tantissimi campioni come compagni, e un allenatore come Carlo Ancelotti.
«Carlo è un allenatore top, soprattutto nella gestione. Se oggi il Real Madrid è vincente è anche per la sua maniera di condurre il gruppo. Di lui non dimenticherò mai l’umanità e l’empatia».
È vero che una notte lo avete svegliato per farlo venire a festeggiare con voi calciatori?
«È verissimo. Eravamo in un ristorante a festeggiare il primo titolo di Ligue 1 della nuova proprietà, e alle due di notte il Pocho Lavezzi lo chiamò davanti a tutti noi. Carlo dormiva, ma rispose comunque, pensando che si trattasse di qualcosa di grave, e dopo neanche venti minuti si presentò al ristorante per venire a festeggiare con noi. Fu qualcosa di incredibile per un allenatore che aveva già vinto tanto. Ci raccontò tanti aneddoti e tante storie del suo passato, dando l’ennesima prova della sua dolcezza. Carlo si fa amare tanto dai suoi giocatori, e con lui al Psg eravamo una vera famiglia».
Nel 2018, il ritorno in Italia. In una Roma orfana di Totti da un anno.
«Appena seppi della possibilità di far ritorno in Italia ero contentissimo. La Roma è tra le più grandi squadre d’Italia, e c’era tanta voglia di far bene.
Forse troppa? Come troppe erano le aspettative?
«Parlando personalmente, il primo anno non riuscii a trovare l’equilibrio con l’allenatore del momento (Eusebio Di Francesco ndr), che mi faceva giocare più in mezzo al campo come interno e obbligandomi a difendere troppo. Poi arrivò Paulo Fonseca e tutto cambiò in meglio per me dal punto di vista tattico, anche se poi mi fermò l’infortunio all’anca, che mi tenne fermo per un anno e mezzo. Il tutto in una squadra che aveva riposto tante aspettative su di me, un peccato».
Resta, però, nella testa dei tifosi giallorossi, il tuo primo gol all’Atalanta. E non un gol qualsiasi, bensì un colpo di tacco da campione.
«Anche quella fu una di quelle giocate che eseguii in modo naturale, senza sforzo. Così come fu una di quelle che poi rividi in video e mi resi conto di quanto la gente fosse estasiata allo stadio per quanto avevo fatto».
Alla Roma hai giocato con Daniele De Rossi, un altro totem del club capitolino.
«Ero sicuro che sarebbe diventato un allenatore, perché con me già lo era in campo. È una persona che vive di calcio e vuole conoscerne tanti aspetti. E sapevo anche che sarebbe andato a giocare in Argentina per tutte le domande che mi faceva sul nostro calcio, conosceva tutte le squadre e tutti i giocatori del campionato argentino, era incredibile».
La sua avventura da tecnico dei giallorossi è però finita molto presto.
«Sono sicuro che nel futuro gli andrà molto bene, perché è una persona che sa tanto di calcio e sa coniugare i concetti antichi e moderni di questo sport. Ed è una persona che sa gestire il gruppo, mi hanno parlato tutti molto bene di lui».
Chi è stato il più forte con il quale hai giocato?
«Con Ibrahimovic mi trovavo a occhi chiusi. In generale, a parte Messi, con il quale ho giocato in nazionale, ti direi che è stato lui il più forte. Poi come centravanti puro per me Cavani era unico. Fin da Palermo ho sviluppato un’intesa enorme con lui, sia dentro sia fuori dal campo, dove lui preparava il mate e anche l’asado a noi più giovani (ride). In campo sapevo dove fosse scattato anche prima di guardarlo. Dopo Messi credo che Neymar sia stato il più geniale, vedeva cose che gli altri non vedevano, aveva una creatività unica. E poi ce n’è un altro….»
Chi?
«Ilicic. Con lui a Palermo ci siamo divertiti tanto. Ma proprio tanto!».