Palermo-Padova, Foschi: «Baldini e i tifosi rosa le armi vincenti per tornare in alto. C’era il disegno per fare scomparire il Palermo»
L’edizione odierna de “La Repubblica” si sofferma sul Palermo e la finale che giocherà contro il Padova, riportando un’intervista infinita a Rino Foschi.
A luglio compirà 76 anni e dopo il disastro rosanero, immalinconito dalle assurde vicende degli inglesi e cacciato da Tuttolomondo, sta faticando a rientrare in un mondo che ha circumnavigato per quaranta stagioni. Ora Rino Foschi, storico dirigente rosanero con un passato anche nel Padova, è in stand-by. Colpa dei nipoti e della voglia di stare a casa?
«Quando mai. Non mi piace fare il nonno e vivrò malissimo finché non torno in pista»
Prigioniero del tempo che passa? «A Zeman hanno detto: “Ad una certa età bisogna anche fermarsi”. Ma quale età! Io come Zeman mi paragono a 35enne. Hanno scritto che potevo essere l’unico in grado di sostituire Sabatini a Salerno. Grazie. Ho avuto contatti con diverse società ma oggi la figura del diesse quasi non c’è più cancellata da americani, cinesi, arabi… e da procuratori che fanno conti fasulli».
Il fallimento non l’ha aiutata. «Sono fermo da allora, ingiustamente perché nessuno mi ha difeso quando sono stato licenziato da personaggi che poi sono scappati di notte. Ce l’ho con tutti: Figc, presidente della B, con i traditori e con chi mi ha abbandonato».
Per il Palermo una sera da B con Foschi “protagonista”. In fondo è stato lei, nel 2003, a portare Baldini. Si è più sentito con lui? «Sì, di recente. Con la sua testa e il suo modo di fare, anche se rude, potrà prendersi la rivincita. In uno stadio stracolmo di passione. Il Padova dovrà fare i salti mortali. Al loro direttore ho ribadito: “Scordatevi la B, è già del Palermo”. Il campionato se lo sono giocati nell’arco della stagione. Ora pensano di poterla ribaltare… vedranno cosa li aspetta».
Ad un passo dall’impresa davanti al “Barbera” impazzito di felicità. Come ai vecchi tempi. «Baldini ha abbattuto ogni ostacolo. Lui ha i suoi modi, a volte discutibili se pensiamo che anche Toni e Zauli non gli calavano per certi atteggiamenti in allenamento. Però, ha orgoglio smisurato e lo spogliatoio in mano. E vince».
Lei è stato a Padova due stagioni. «Ma non della stessa bellezza perché, a Palermo ho lasciato il cuore. Col Padova al primo anno, perdemmo la finale play-off a Novara. Però, nella partita di andata, riempimmo l’Euganeo con 22mila spettatori, pareggiando. Poi, tanti cambiamenti societari che non gradivo e decisi di lasciare».
Brunori, in rosa a vita? «I dirigenti devono approfittare dei buoni rapporti con la Juve. Una volta promossi, ci vogliono tre, quattro punte di valore perché non puoi gestire la B per salvarti, non esiste. Il bomber è la base per ripartire, un sacrificio economico da sostenere».
Oddo fu sul punto di venire a Palermo. «Voleva, ma presi Stellone, sbagliando. Prima ho conosciuto il papà perché lo portai come allenatore a Modena, Massimo l’ho avuto a Verona da calciatore e venduto alla Lazio per un sacco di quattrini. Non è in prima fila come Zanetti, ma cresce bene e ha pratica dei play-off».
Cinquantotto giorni da presidente, una ferita che non si rimargina. «Non ne guarisco e porto sulle spalle avvenimenti pazzeschi. Non ho pace. Somiglio a Baldini e, come lui, non sono ruffiano: c’era il disegno di fare scomparire il Palermo».
Ha dichiarato che sarebbe rimasto pure nei dilettanti. «Adoro la città, come ci si vive e come la gente ama il calcio. Se poi ottieni risultati, sei considerato un re. C’è tutto, miseria e ricchezza, è il posto migliore perché sei sempre in vacanza, anche quando lavori. E i tramonti di Mondello dove li mettiamo? Altro che Monte Carlo».
Il pallone di quegli anni… «Emozioni incredibili. I miei ricordi? Kjaer che non aveva intenzione di venire e che andai a vedere al Viareggio nascondendomi tra la folla e pagando il biglietto; Cavani strappato ai club più famosi… Potrei scrivere un romanzo».
Un aneddoto su Cavani? «Un giorno chiesi a Zamparini l’aereo personale perché l’Inter me lo stava soffiando. Il mio gruppo di lavoro fu abile a chiuderlo in un albergo e a definire ogni dettaglio».
L’uruguaiano arrivò con la famiglia. «E firmò subito. Gli diedi 250mila euro e il procuratore volle la famosa clausola di undici milioni per la cessione, altrimenti lo stipendio sarebbe lievitato a 750mila. E Maurizio: “E ora, come cavolo li recuperi?”. Poi, dopo la cessione al Napoli, mi avrebbe ringraziato».
Un periodo d’oro. «Pensi che Sabatini fece la finale di Coppa Italia con 11 elementi tutti miei tranne Pastore. Un anno, realizzammo 54 milioni di attivo con le cessioni di Amauri alla Juve, Barzagli e Zaccardo al Wolfsburg, Rinaudo al Napoli».
I giocatori che le sono rimasti impressi? «Sono molti, troppi. Barzagli e Amauri sicuramente. Di Toni dicevano che a Brescia non era andato bene. Lo acquistai alle “svendite”. Lippi che vinse il Mondiale aveva mezza squadra rosanero. Ma non dobbiamo pensare solo ai più grandi».
Ne scelga uno come simbolo. «Forse la deluderò, ma non dimenticherò mai Biava per il suo comportamento da vero uomo di spogliatoio».