L’edizione odierna de “La Repubblica” si sofferma sull’omicidio di Celesia.
Il suo posto è su una sedia accanto alla porta d’ingresso. Sotto gli occhi ha il sorriso di suo figlio ancora da bambino in un corpo di un metro e novanta, impresso in decine e decine di foto che non lasciano più spazio alle pareti, e le sue scarpe da ginnastica slacciate poco prima di uscire il 21 dicembre scorso per indossarne altre più adatte alla serata in discoteca.
L’ultima. «Aspetto che torni», dice la mamma di Lino Celesia, ucciso a colpi di pistola a 22 anni a pochi giorni dal Natale. La mattina al cimitero di Sant’Orsola dove è sepolto, il pomeriggio in via Casalini al Cep, accanto al murale che gli hanno dedicato gli amici. Per il resto non si dorme e non si cucina più. Soltanto un panino con il prosciutto a pranzo nel tragitto di ritorno dal cimitero a casa «Il calcio per lui era tutto. Aveva le carte in regola per giocare ad alti livelli, ma è stato sfortunato. Se si è perso la colpa è anche mia», dice il papà Gianni Celesia, ex parrucchiere e cantante neomelodico.
Celesia, perché dice così? «Giocava nell’under 18 del Torino quando sono finito in carcere per tentata rapina. Gli dicevo di stare tranquillo, di continuare a inseguire il suo sogno nel Torino, che l’importante era che stesse bene e fosse felice, ma dopo un anno ha deciso di tornare per stare accanto a sua madre che aveva avuto due infarti e alle sue sorelle. Gli mancavo. Gli amici mi raccontano che piangeva spesso per la mia assenza, non ho potuto stargli accanto come avrei voluto, per incoraggiarlo, per dirgli di non mollare. Non me lo sono goduto mio figlio, l’ho lasciato a 16 anni e l’ho ritrovato quasi a 21 dopo il carcere e poi me l’hanno ammazzato».
Che ha fatto Lino dopo il Torino? «Non è stato molto fortunato, ripeto, ha giocato nel Palermo di Maurizio Zamparini che è fallito, poi è tornato al Trapani dove era già stato da ragazzino che è fallito pure, poi al Troina dove non si trovava bene con l’allenatore che non lo faceva giocare. Così finisce nel Marsala che fallisce pure fino al Parmonval, ma lui era abituato ai campi di un certo livello, non la prese benissimo quella parabola. Poi arrivò il Covid e un brutto incidente in moto che gli procurò 50 punti di sutura alla gamba destra a mettere la parola fine al suo sogno».
«Ormai tanti ragazzi ragionano con la mente criminale. Basta un niente e le cose degenerano. Si formano le bande, si affrontano, e non c’è bisogno della pistola per ammazzare, bastano le mani. Uno come loro ha ammazzato mio figlio. Non è possibile che una lite sia finita così, non lo accetto. Io e mia moglie continuiamo a parlargli, facciamo come se dovesse tornare da un’uscita o da un viaggio, ma lui non torna. Più il tempo passa più sprofondiamo in un inferno. Solo ora ho capito che avevo tutto nella vita. Prima mi preoccupavo di non avere i soldi per pagare le bollette o per concedermi qualche sfizio. Ora che ho perso mio figlio, ho capito che solo a questo non c’è alcun rimedio».