Millesi, Catania e il futuro da Serie D: «Una squadra operaia, altro che big»
L’edizione odierna de “La Gazzetta dello Sport” si sofferma sul Catania e riporta un’intervista all’ex rossazzurro Millesi.
Dieci gare in A col Catania tra il 2006 e il 2007, poi Francesco Millesi ha dovuto cercare gloria altrove. E l’ha conquistata: ad Avellino è diventato capitano e simbolo di successi. Nella sua terra no. Adesso che il calcio nella sua città è scomparso, l’attaccante non le manda a dire usando la sua riconosciuta sincerità.
Millesi, Catania è una città senza pallone e senza lavoro. E senza il sindaco, rilevato dal facente funzione. «Stiamo vivendo un momento assai triste e particolare, il fallimento del Catania ha destabilizzato un’intera città, da anni si viveva con la paura del fallimento per troppi debiti. Il direttore Pellegrino ha cercato di fare il massimo. Ma con tutti quei debiti alla fine crolli».
Che cosa occorre adesso per il rilancio? «Sento già nomi e ingaggi stratosferici, si inizia a fare confusione e a mettere fumo agli occhi ai tifosi. Ci si sbizzarrisce a scrivere e creare la Juventus della serie D. Per vincere servono serietà e soprattutto un profilo basso. Se fosse Serie D sarebbe, per il Catania, un campionato a parte dove le squadre ti aspettano per disintegrarti in campo. Si trovano ragazzi che fanno due lavori o ragazzi che guadagnano una miseria. Ci sarebbero squadre motivate contro il Catania. In rossazzurro servono soldi per consentire alla squadra di lavorare bene. Serve gente competente e non chiacchierona. Servono programmazione e pazienza perché non è detto che possa vincere già al primo anno. Occorrono calciatori di categoria e non quelli della C. La Serie D è tostissima e Catania non avrà pazienza: vuole vincere subito».
A Ragusa e a fine carriera con l’Acireale, ha vissuto il mondo dei dilettanti. Catania potrà adattarsi alla D? «Grazie a Dio ho fatto una carriera prettamente nei prof. Nel ‘97, a 17 anni, iniziai dalla serie D a Ragusa e per me stato un trauma. Arrivavo dall’Atletico Catania ed è stato complicato ambientarmi. Non sarà facile per il Catania adattarsi: bisogna costruire una squadra operaia e non una squadra di nomi altisonanti».
Nel Catania ha vissuto una stagione e mezza in A. I momenti da ricordare? E quelli bui? «Il rammarico è non essere rimasto più anni nella mia città. Accettai Catania nel periodo importante della carriera: era un treno per me dopo quello perso l’anno precedente. Ero sul punto di firmare per la Roma di Spalletti, ma non trovarono l’accordo il direttore Pradè con il d.g. De Mita. Accettai Catania lasciando proposte importanti come il Betis Siviglia, il Bologna di Ulivieri, il Lecce di Zeman. Anni travagliati. Troverete nella mia biografia i perché non giocavo spesso e i perché dei due anni fuori rosa».
Le esperienze più belle ad Avellino, vissute da capitano. «Avellino è la mia seconda casa, lì è nato il mio secondo figlio. Calcisticamente sono stati anni che mi hanno consacrato e fatto maturare. Ho vinto due campionati e per quella maglia mettevo il cuore oltre l’ostacolo, cosa che non ho potuto fare nella mia città».
I tifosi del Catania tra passioni e speranze: potranno spingere di nuovo la squadra come accadde nel 1995 in D? «Inizia il campionato non della squadra ma dei tifosi, della città. Il pubblico dovrà spingere il club alla rimonta. Si deve aiutare nei momenti bui».