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Mazzarri ancora fermo. Il tecnico rilancia: «Ho fatto un corso di simpatia. Cavani dal Palermo con me è diventato un campione»

L’edizione odierna de “Il Corriere dello Sport” riporta un’intervista a Walter Mazzarri il quale si sofferma anche su Cavani.

Mazzarri è cambiato. «Non sono più stressato e ossessivo come un tempo» precisa poco prima di richiamare per la settima volta e di inviare un altro paio di vocali per informarsi su quando sarebbe uscita l’intervista, pregarmi di evitare un titolo polemico e suggerirmi di riprendere le statistiche della sua avventura al Toro, e insomma non è cambiato per niente.

Mazzarri vorrebbe cambiare, a parole, ma a 62 anni, quando pensi che sarebbe ora di cambiare atteggiamento, carattere, e forse anche vita, ti accorgi che non c’è nessuna vita di scorta e niente, ti tieni quella che hai e quello che sei. E noi ci teniamo stretto Walterone Mazzarri così com’è, nella sua inarrivabile unicità. L’intervista è in videochiamata, lui parte girandosi verso il finestrone che ha alle spalle per mostrarmi una porzione della tenuta. «Guarda un po’, riesci a vedere la piscina? La vedi? Oh no, no, ti volevo fare, ti volevo far vedere… Poi il panorama… e non lo vedi, dài».

Ti sei fatto costruire un’olimpica. Lo dirò a Malagò. «Sì, olimpica per te, solo per te, viene Ivan e noi si fa la piscina».

Quanti metri sono? «Venti di lunghezza e se vieni ne metto cinque in più».

E spendili, ’sti soldi. «Diobono, non so più dove metterli, guarda. Dai, scherzo eh, scherzo».

Come si sta a casa? «Tanto siamo io e te, posso fumare le sigarette dell’IQOS…».

Una volta beccasti una multa perché fumavi in panchina. «Bravo, bravissimo, sono stato il primo. Con Tombolini, contro l’Udinese, la prima di campionato».

La retromarcia la innesto io, se permetti: i quattro anni a Napoli restano indimenticabili. «Da quando è presidente De Laurentiis sono quello che c’è stato più a lungo. Voglio solo dire che con lui ho avuto un rapporto stupendo. E se fosse stato per De Laurentiis sarei rimasto tanti anni ancora, come si usa in Inghilterra. Però, lo dissi anche a suo tempo, dopo quattro anni se non cambi tutti i giocatori o non ne cambi tanti, diventi troppo prevedibile. È anche una questione di linguaggio. Pensai che fosse quello il momento di andar via».

De Laurentiis non è esattamente un presidente facile. «Sai cosa ti dico? Io sono uno stakanovista, quando lavoro sono un martello, anche per questo mi sono concesso delle pause. Lui mi chiamava, almeno i primi tempi, alle 6 del mattino, massimo le 6.30, e mi faceva un favore. Alle 9 ero già al campo per l’allenamento e il confronto era stato pieno, completo. Con lui avevo un rapporto diretto, gli spiegavo cosa avrei fatto, insomma trovammo una sinergia importante».

In seguito la Samp, l’Inter, il Torino. «Anche col presidente Cairo la stima è ancora intatta. Sono arrivato in corsa, ho fatto benino subito, ma l’anno importantissimo è stato quello in cui ho completato la preparazione, l’anno dei 63 punti, una cosa incredibile, è tuttora il record dei tre punti. E ti dico la verità, resta il rammarico di aver solo sfiorato la Champions. Siamo arrivati in Europa League, ma se avessimo vinto a Empoli e a sei minuti dalla fine Ronaldo non avesse pareggiato a Torino, saremmo andati su noi».

Il calcio ti ha restituito tutto quello che gli hai dato? «Un po’ di meno, un po’ di meno, ma la colpa è mia, non di altri: quando stai in un mondo come il nostro non devi pensare solo a fare l’allenatore, non basta far rendere i giocatori per poi trascurare i rapporti. A 62 anni mi rendo conto che hanno ragione quelli che, magari non conoscendomi, mi considerano antipatico. Ecco, credo di aver pagato un po’ troppo i miei atteggiamenti, la mia ritrosia. Come si dice adesso? Scarsa empatia».

Lasciatelo dire: cercavi insistentemente degli alibi alle sconfitte. Ricordo una frase, ormai storica, «e poi ha cominciato a piovere»… «Vedi, Ivan, ho pagato l’antipatia di persone che non vedevano l’ora di attaccarmi e farmi fuori. Di Inter, quell’anno, c’era solo la maglia nerazzurra, basta dare un’occhiata alla formazione per rendersi conto che non era competitiva, non all’altezza del nome che portava. Con l’esperienza che ho oggi non avrei probabilmente accettato, anche se l’Inter è un posto prestigioso. Quando alleni un club di quell’importanza devi poter disporre di una squadra potenzialmente da primi tre posti, altrimenti preparati a essere contestato ogni tre giorni. Un grande equivoco, quell’esperienza. Anche se poi, rispetto a chi è arrivato dopo e a chi mi aveva preceduto, ho fatto meglio. Io quinto, loro ottavi. A volte sento allenatori di squadre importanti che accampano molte più scuse di quelle che accampavo io. Quando perdi non puoi dire “la squadra non è all’altezza del club, del suo blasone”. Se pensi al Napoli, dove ho fatto la storia e si perdeva poco, la quota degli alibi era praticamente azzerata. Certe etichette te le appiccicano addosso quando sei costretto a mentire, a difendere il gruppo».

Hai frequentato un corso di simpatia e comunicazione? «Dopo tanto tempo torno a parlare, concedo un’intervista. Sono sparito perché quella era la mia volontà. Se avessi voluto allenare avrei potuto farlo, le offerte non sono mancate. In questo periodo mi sono reso conto dei cambiamenti del calcio e li ho approfonditi».

Oggi, qual è il calcio più vicino al tuo ideale? «Il Napoli di Spalletti, beh, quello piace a tutti, io il 4-3-3 non ho mai potuto farlo perché non avevo i giocatori adatti. L’anno scorso il Napoli ha trovato un’alchimia incredibile. Ha fatto un calcio bello, bellissimo. Il 4-3-3, con tutti i movimenti delle catene di destra e di sinistra, i terzini che, a volte, invece di allargarsi costruivano da dentro. Insomma, tante novità e il Napoli le ha assimilate meglio di altri. Sia chiaro, anche Pioli col Milan ha mostrato cose nuove: faceva impostare i terzini da dentro e allargava le mezzali, gli esterni».

A Napoli torneresti. «A Napoli vorrebbero tornare tutti perché è una squadra forte, il club è diventato importante. Napoli è un posto affascinante. Se dovessi avere, come ho avuto, delle chance di rientrare, mi piacerebbe trovare gente disposta a capire il calcio che intendo fare. Mi piace insegnare, migliorare i giocatori, impostare un lavoro serio. Programmare: chiedo troppo?».

In Italia, per come siamo messi, non è semplice: oggi il risultato immediato è tutto. «Scusa, se analizzi il mio Napoli, scopri che crescita e risultati si possono coniugare: Cavani veniva da Palermo, aveva 22 anni, non era per niente esploso, giocava spesso sull’esterno, raramente al centro, dicevano che non vedesse la porta. L’ho fatto crescere, è diventato un campione».

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Redazione Ilovepalermocalcio