L’edizione odierna de “Il Corriere della Sera” realizza una lunga intervista a Zeman, nel quale si racconta a 360° ripercorrendo le tappe della sua carriera e parlando anche del Palermo.
Ecco qualche estratto:
“Racconta Zdenek Zeman, nell’autobiografia scritta con Andrea Di Caro, La bellezza non ha prezzo: «Ho visto tutto. Ho fatto tanti ritiri in hotel a 5 stelle e altrettanti in alberghi Miramare dove la padrona era anche la cuoca. Sono stato assunto da presidenti in doppiopetto e da poveri diavoli di periferia con cravatte improbabili. Ho allenato campioni che guadagnavano miliardi e giovani a cui dovevo prestare i soldi per la benzina…».
Che nome è Zdenek? «Sidonius, in latino. Viene dalla radice zidati, che significa creare, costruire. Un nome, un destino. Ho sempre cercato di creare gioco e felicità. Bellezza, appunto».
Lei è nato a Praga nel 1947, due anni dopo l’arrivo dell’Armata Rossa. Come ricorda la Cecoslovacchia comunista?
«Odiavo i comunisti. Come li odiava mio padre, medico. Al piano di sopra abitava il capo del partito di Praga 14, il nostro distretto. Papà talvolta urlava dalla finestra del bagno la sua rabbia contro il regime. Ogni tanto qualcuno spariva».
Chi spariva? «A un altro piano viveva un campione mondiale di hockey su ghiaccio. In una trasferta all’estero aveva pensato alla fuga; fu scoperto e arrestato. Lo rivedemmo dopo cinque anni».
Com’era la vostra casa? «Vivevamo in due stanze. Papà e mamma dormivano in tinello, mia sorella Jarmila e io in cucina. Ma non ci sentivamo poveri, anzi; rispetto agli altri eravamo ricchi».
Infanzia dura. «Ci costringevano a festeggiare il compleanno di Stalin e di Lenin, ma io non ho mai portato un fazzoletto rosso. In compenso avevo una mazza da hockey e quattro palloni, anche se ogni tanto gli zingari me ne rubavano uno. Facevamo il catechismo di nascosto. Eravamo una famiglia molto cattolica».
Lei lo è ancora? «Non sono più praticante. Ma quando morì il mio Papa, Giovanni Paolo II, mi misi in fila a San Pietro per andare a salutarlo. Volevano farmi passare avanti; rifiutai. La notte in coda fu bellissima».
Lei per quale squadra tifa? «Sono sempre stato juventino. Da piccolo andavo a dormire con la maglia bianconera».
Zeman juventino? Ma se avete avuto polemiche durissime. «Con la Juve di Moggi, Giraudo e Bettega. Ma la Juventus non comincia e non finisce con loro. Era la squadra di mio zio Cestmir Vycpálek: il più grande talento del calcio cecoslovacco prima di Pavel Nedved, che portai in Italia. La differenza è che Nedved, lavoratore maniacale, voleva allenarsi pure il giorno di Natale; mio zio invece amava le gioie della vita. Era stato a Dachau, e il lager l’aveva segnato. Ma mi dicono fosse birichino anche prima».
Lei arrivò in Italia per la prima volta nel 1966, in Sicilia, proprio per far visita a suo zio. «Pensavo di non poter vivere lontano da Praga; non avevo ancora visto il mare di Mondello. Presi l’abitudine di passare l’estate a Palermo. Anche quella del 1968, quando a Praga arrivarono i carri armati sovietici».
E lei tornò in patria. «A inizio novembre. Volevo finire l’università. Il 16 gennaio del 1969 si diede fuoco Jan Palach. Il 30 giugno ripartii per l’Italia; il giorno dopo i comunisti chiusero le frontiere. Non vidi i miei genitori e mia sorella per vent’anni».
Suo zio Cestmir divenne allenatore della Juve. «E vinse due scudetti consecutivi, nel 1972 e nel 1973. Ero a San Siro quando il giovane Bettega segnò il gol di tacco al Milan. Esultai. C’erano Haller, Causio, Capello. Ricordo i derby: sulla panchina del Toro sedeva Giagnoni col colbacco…».
Il 1972 è anche l’anno del disastro aereo di Punta Raisi. «In cui morì mio cugino, il figlio di mio zio: Cestmir junior, detto Cestino. Un dolore terribile. Era il 5 maggio. Lo zio se n’è andato lo stesso giorno, trent’anni dopo, mentre la sua Juve vinceva uno scudetto insperato: 5 maggio 2002, il crollo dell’Inter all’Olimpico».
In Sicilia lei trovò la donna della sua vita. «Vidi Chiara e capii subito di essere innamorato. Siamo insieme ancora adesso».
E cominciò ad allenare il Bacigalupo. Presidente, Marcello Dell’Utri. «Andai a casa sua. Ricordo l’ascensore privato. Era già un uomo ricco».
Capiva di calcio? «Come Berlusconi: capiva il suo calcio, non quello dei suoi allenatori».
Poi lei passò alle giovanili del Palermo. «I campi erano in terra battuta: a ogni scivolata perdevi sangue, ora sono diventati campi nomadi. I tesserati erano due. Misi un annuncio sul giornale: cercasi calciatori. Si presentarono a decine. Presi tutti quelli che sapessero fare tre palleggi di fila».
E cominciò ad applicare la sua filosofia. «Gradoni, sacchi di sabbia, corse ripetute. In un torneo al Nord incontrammo Juve, Toro e Milan, dove giocava Paolo Maldini, e le battemmo tutte. Andavamo al doppio della loro velocità. Tuttosport scrisse: questo Palermo è una piccola Olanda».
Lei denunciò l’abuso di farmaci nel calcio. La Juve finì sotto processo. «Ma solo perché a Torino c’era un magistrato coraggioso, Guariniello. Io ho puntato il dito contro il sistema, non solo contro la Juve, che aveva molti seguaci. E il problema non erano solo i farmaci. Erano anche i passaporti falsi. Era anche il condizionamento degli arbitraggi. Era anche lo strapotere della finanza».
A cosa si riferisce? «Al Nord c’era l’alleanza tra Juve e Milan; l’Inter ne era esclusa, e cercava di entrare nel sistema pure lei. Altre squadre, dal Parma alla Lazio al Perugia, erano in mano alla Banca di Roma: Tanzi e Cragnotti ne uscirono rovinati, come pure Gaucci. Che fece in tempo a caricare il suo Perugia a pallettoni, per far perdere lo scudetto del 2000 alla Juve, sotto il nubifragio».
Quali sono le sue idee politiche? «Sono amico di Alessandro Di Battista. Mi ha anche proposto un seggio al Senato; ma la politica non fa per me, e forse neanche per lui. Nel 2018 però ho votato Cinque Stelle».
Quanto fuma al giorno? «Partivo da tre pacchetti. Ho ridotto a uno e mezzo».
Guardi che ha fumato un pacchetto e mezzo in tre ore. «Ero un po’ teso per l’intervista…»”.