L’edizione odierna de “La Stampa” si sofferma sulla scomparsa di Maurizio Zamparini ripercorrendo i suoi trascorsi alla guida della società rosanero.
Se ne raccontavano talmente tante di e su Maurizio Zamparini, scomparso ieri a 80 anni di vita e 31 trascorsi nel calcio da presidente-padrone prima del Venezia e poi del Palermo, che non si sapeva mai quali fossero vere e quali invenzioni. Il confine, nella sterminata aneddotica sul «Mangiallenatori» che si fece le ossa vendendo elettrodomestici porta a porta e si riscoprì imprenditore di successo tirando su le catene di supermercati dai prezzi concorrenziali Emmezeta e Mercatone, era sempre molto labile: l’impossibile, con un vulcano come lui, poteva sempre essere possibile. E così, raggiungendo il figlio Diego (morto, a soli 23 anni, lo scorso ottobre) e salutando la moglie Laura e altri quattro figli, Zamparini lascia tante storie senza un bollino di verità assoluta o di leggenda metropolitana.
Raccontano che ai tempi del Venezia, sbrigando le pratiche per uno dei 51 esoneri ordinati, convocò lo staff dell’allenatore appena silurato nella sede delle sue aziende e lanciò dalle scale una borsa da palestra contenente la liquidazione in contanti. Al Palermo, dove gli sono riuscite le cose migliori, si mise a piangere come una fontana non appena vide il primo approccio con il pallone di Pastore, appena sbarcato dall’Argentina. Commosso, come poche altre volte, Zamparini entrò nello spogliatoio e disse al resto della squadra: «Dovete fare una sola cosa: dare la palla a Pastore». E quel Palermo, grazie alle intuizioni di due talent scout come Rino Foschi e Walter Sabatini e alle rivelazioni in campo di campioni ancora sconosciuti come Cavani, Kjaer, Pastore, Ilicic, Toni, Miccoli, Barzagli e Grosso, nel 2006 sbarcò in Europa, nel 2010 sfiorò per due punti l’utopia della Champions League e nel 2011 si arrese all’Inter solo in finale di Coppa Italia. Da quel momento, suggellato da un’invasione di massa del tifo rosanero a Roma, la parabola imboccò la via del declino.
Lento, ma costante. Retrocessioni, promozioni, salvezze, ricadute in cadetteria, intuizioni geniali come Dybala, Belotti e Vazquez, cessioni della società ad acquirenti fumosi che puntualmente si tiravano indietro fino ad arrivare al fallimento e all’uscita dal mondo del nostro pallone. Amato dai giocatori, almeno da quelli che non andavano via a zero, molto meno degli allenatori. Nella lista delle 51 vittime zampariniane, impallinate tra Venezia e Palermo, ne compaiono di ogni tipo: Novellino, Ventura, Spalletti, Guidolin, Delneri, Zaccheroni, Delio Rossi, Pioli, Gattuso, De Zerbi, Prandelli, Gasperini. Non pensava tanto, ma agiva d’impulso. E non è sempre stato un pregio. «La fusione Venezia-Mestre fu la mia più grande cavolata», ammise. Ci avesse pensato, forse non avrebbe impacchettato una squadra intera in una notte per spedirla a Palermo e negli anni successivi si sarebbe pure risparmiato una trascurabile parentesi politica e qualche altro guaio. Ma non sarebbe stato Zamparini, uno che diceva quasi sempre quello che pensava. Come che non capiva i siciliani che andavano via dalla Sicilia. Detto da un friulano, cresciuto tra Milano e il Varesotto, faceva sempre un certo effetto.