L’edizione odierna de “La Stampa” parla del confronto che vede da una parte i medici italiani di sette tra ospedali e università sul fronte anti Covid-19, dall’altra i colleghi cinesi impegnati da tre mesi a Wuhan, epicentro dell’epidemia. I cinesi hanno spiegato che il lockdown è destinato ad avere esiti effimeri se quando la gente esce di casa non esiste un «meccanismo chirurgico» per circoscrivere rapidamente ed efficacemente i nuovi, inevitabili focolai. Non tutte le regioni hanno ospedali dedicati per i malati meno gravi, cosiddetti post Covid. L’aumento dei medici dove scoppiano i focolai è insufficiente. I dispositivi di protezione per medici e infermieri sono arrivati tardi e in misura scarsa, mentre in Cina si fanno periodici corsi di autoprotezione online e si sono stabiliti protocolli per rifiuti ospedalieri e aerazione dei reparti. Evanescenti le nostre linee guida sanitarie, mentre in Cina sono state da subito omogenee e aggiornate sette volte, «con controlli di qualità su diagnosi, terapie e prevenzione ospedaliera e condivisione su wechat dei dati clinici». Ma il problema principale è la strategia di sanità pubblica sul territorio, che conta non meno di quella economica e deve essere «capillare, con un notevole dispiego dirisorse». Mascherine obbligatorie ovunque, misurazione delle temperature all’ingresso di ogni edificio pubblico e privato, app sul telefono che attesta la «non positività» e consente di prendere i mezzi pubblici, massiccio e veloce ricorso ai tamponi (il risultato arriva in 6 ore), quarantene totali per i positivi, tracciamento dei contatti dei malati anche con big data. «In questo modo si è ottenuto il quasi azzeramento dei contagi in circa un mese e il controllo dei residui focolai nelle settimane successive».