L’edizione odierna de “La Nazione” riporta una lettera scritta dalla studentessa senese di 22 anni che è stata vittima di un stupro di gruppo nella notte fra il 30 e il 31 maggio 2021 in un appartamento vicino a Piazza del Campo a Siena e per il quale calciatore del Genoa Manolo Portanova e suo zio Alessio Langella sono stati condannati il 6 dicembre scorso con rito abbreviato a 6 anni di reclusione, oltre che al risarcimento del danno.
“Negli ultimi anni ho scoperto di avere tanti nomignoli: Chiara, Sara, Claudia, Marta, ‘quella di Portanova’, ‘sicuramente una poco di buono’, ‘la stuprata’ e chi più ne ha più ne metta. Ho scelto di scrivere, una scelta un po’ tarda potrebbe pensare… ma sapete, non è mai facile esprimere se stessi e il proprio dolore quando si è in mezzo ad una burrasca giudiziaria.
Tutto può essere preso di mira, tutto può essere visto da qualcuno come un piccolo enorme dettaglio per puntarmi il dito contro. Ma sono qua oggi, per rispondere ad una conferenza stampa da poco tenuta, per rispondere a chi potrebbe credere più alle parole di qualcuno rispetto all’esito di un primo grado di giudizio. Perché rispondere? Perché oltre a quello che ho dovuto subire nella notte tra il 30 e il 31 maggio 2021, mi ritrovo oggi di fronte a qualcuno che tenta di affossare la mia persona e di mettermi in cattiva luce. Purtroppo oltre al tribunale giudiziario ne esiste anche uno mediatico e sociale, molto crudele, del quale con sincerità posso affermare che siamo vittime tutti. Non sono stata io a voler dare clamore a questa orribile vicenda. Però il fatto sta che nel voler portare alla luce la verità.
“Ti sei scelta bene i cavalli da giocare”, dice qualcuno. Se solo sapeste quanto sia stato difficile per me riuscire anche solo a denunciare”. La giovane racconta il calvario delle indagini, gli accertamenti e poi la battaglia legale in aula quando c’è stato l’incidente probatorio (“7 ore in mezzo alle lacrime”): “Denunciare una violenza sessuale significava dover affrontare anni di svalutazioni, di insulti, anni in cui avreste provato a dire che era un gioco e che ero d’accordo. Denunciare significava affrontare processi, udienze, dover leggere articoli su articoli di giornale, dover affrontare le calunnie più malvagie…”. E poi il dolore di “rivivere quei momenti” in un’aula del tribunale con “avvocati che avrebbero tentato di rigirare ogni mia frase contro di me”.
La giovane racconta anche di quando è arrivata a casa sua la polizia: “Non avevo neanche il coraggio di fare i vostri nomi…”, “sarei voluta sprofondarre in un abisso di amnesia…”. Invece decide di raccontare e denunciare: “Se mi fossi tenuta tutto dentro, mi avrebbe divorata viva…”. E ancora i giorni a luce spenta: “Ho desiderato spegnermi. Mi sono chiusa in un guscio di silenzio e freddezza, nessuno doveva chiedere, nessuno doveva sfiorarmi…Ricordo di aver abbracciato mio cugino per primo e di avergli detto: mi fa male tutto”. E poi l’aiuto delle persone intorno, il dolore dei genitori, i farmaci per cercare una tranquillità impossibile. Ma adesso dice: “Cerco di riprendere in mano la mia vita giorno per giorno e andare avanti”