La dura vita di Maurizio Schillaci: «Finché giochi tutti ti amano, ma quando smetti c’è il vuoto»

“FanPage.it” ha riportato un’intervista a Maurizio Schillaci, cugino di Totò, caduto in bassa fortuna.

Maurizio Schillaci ha compiuto 60 anni lo scorso 1 febbraio e per lui voltarsi indietro non è piacevole. A chi ancora oggi dice che ai bei tempi era più forte di suo cugino Totò, idolo assoluto con la maglia dell’Italia ai Mondiali del 1990, l’ex attaccante palermitano risponde con dignitoso orgoglio pari alle difficoltà che la vita gli ha messo di fronte quando i riflettori si sono spenti e i tifosi hanno smesso di invocare il suo nome:

«Lo lascio dire agli altri, a chi mi ha conosciuto calcisticamente. Non sono un presuntuoso. Anzi, a dirla tutta mi sarei anche stufato di quello che si dice su di me, che ero più forte di mio cugino. Non me ne importa più niente, e in ogni caso anche se fosse vero io non lo direi mai”. Maurizio Schillaci esulta dopo un gol con la maglia della Lazio. Ma la situazione resta non facile, non potendo contare su una fonte di sostentamento. Del resto – è l’amara constatazione di Schillaci – “ho 60 anni e ho giocato solo a pallone, chi mai mi assumerebbe?”. Maurizio è solo, i rapporti con le due figlie avute da matrimoni diversi sono inesistenti da tempo, lo stesso col cugino Salvatore, col quale la sorte è stata ben più benevola.

Ma come è stato possibile che un calciatore lanciato verso il successo facesse questa triste fine, cadendo anche nell’abisso della droga? Lo racconta lo stesso Schillaci al Corriere della Sera, tornando ai primi tempi alla Lazio, quando cominciarono i suoi problemi fisici. “I medici sociali mi hanno rovinato. Secondo loro ero un malato immaginario, un siciliano senza carattere. Questo, dopo tanti anni, ancora non mi va giù. Dicevano che non avevo voglia di giocare, la realtà è che avevo lo scafoide del piede destro lesionato e in necrosi. Per un anno ho continuato a dire che stavo male, ma nessuno mi credeva. Alla fine per farmi fare finalmente una stratigrafia ho dovuto attendere il mio successivo trasferimento al Messina, in Serie B». La morale della storia è che «finché giochi tutti ti amano, ma quando smetti ti ritrovi da solo. È il vuoto».