L’edizione odierna de “Il Fatto Quotidiano” si sofferma sulla Serie A e sul Decreto Dignità.
Dopo le tasse, le scommesse. Saltata all’ultimo la proroga del Decreto Crescita – l’assurdo privilegio che regalava ai club uno sgravio sugli stipendi dei calciatori stranieri – la lobby del pallone torna a bussare alla porta del governo con la prossima pretesa: cancellare il divieto di pubblicità del gioco d’azzardo previsto dal Decreto Dignità. Ci vuole coraggio, dopo lo scandalo scommesse che ha appena travolto il calcio italiano. Ma questi sponsor varrebbero circa un centinaio di milioni, secondo quanto certificato anche da una relazione dell’Antitrust. E per riaverli la Serie A è pronta a “ricattare” il governo, non assegnando i diritti sul betting del campionato, per costringerlo ad affrontare il problema.
L’ABOLIZIONE del Decreto Dignità è da sempre in cima alla lista del pallone. Nel 2018 la legge voluta dell’ex ministro Luigi Di Maio introdusse un divieto generalizzato di pubblicità concernente il gioco a pagamento su qualsiasi mezzo di comunicazione, comprese dunque maglie di calcio, siti delle squadre, cartelloni negli stadi. Un provvedimento manicheo (il legislatore europeo ha chiarito che per combattere la ludopatia non è necessario un divieto di comunicazione totale) con qualche buona ragione, come la tutela del consumatore e soprattutto il fatto che – senza fare di tutta l’erba un fascio –tanti siti, anche fra quelli riconosciuti, hanno spesso legami con paradisi fiscali come Malta, Curaçao, Gibilterra, e non sono affatto trasparenti. Nel corso degli anni la legge è stata ampiamente aggirata, visto che diversi club vantano sponsorizzazioni con brand di scommesse mascherati da siti di news o pronostici. Per non parlare dei banner di squadre o partite estere che vengono comunque trasmessi in tv. La promozione c’è lo stesso, solo che rende di meno. Tanto vale sdoganarla è il ragionamento del pallone, che ciclicamente torna alla carica. Il divieto però fin qui ha sempre resistito: prima difeso dal M5s con l’ex ministro Vincenzo Spadafora finché è rimasto al governo, poi dalla Cei, la Conferenza episcopale. Sembrava fatta sotto il governo Draghi, ma anche lì niente. Adesso la Serie A ci riprova.
La richiesta è tornare a permettere la pubblicità ma senza l’invito diretto a scommettere: per intenderci, il logo sulla maglia sì, lo spot con magari il coinvolgimento dei calciatori no. Non è comunque facile perché permangono le resistenze del Vaticano, molto ascoltate a Palazzo Chigi dal sottosegretario Alfredo Mantovano, e nemmeno la premier Meloni è convinta di un provvedimento difficile da spiegare all ’opinione pubblica (invece colpire il calcio dei “ricchi scemi” fa sempre consenso, come dimostra la recente piazzata di Salvini sul Decreto Crescita). Stavolta però il tentativo sarà più deciso perché la Serie A userà tutte le armi a sua disposizione, e non solo i contatti politici (il senatore-patron Claudio Lotito è pronto come al solito ad attivarsi). Nelle ultime settimane la Lega Calcio ha deciso di non assegnare i diritti del betting sul campionato, cioè la raccolta sul campo dei dati che aziende specializzate forniscono ai portali di scommesse per elaborare le quote, indispensabili soprattutto per le giocate live. Sono arrivati ormai a valere circa 40 milioni l’anno. La gara a quanto risulta al Fatto sarebbe stata vinta da Perform ma a sorpresa è ancora in stand-by. Una strategia precisa: non vendere i diritti è un modo per creare un problema ai concessionari, che a loro volta lo creeranno al governo. Aprire un caso per costringere la politica ad affrontare la questione.