L’emergenza Coronavirus continua a spaventare l’Italia, i contagi stanno aumentando e ieri si è arrivato a sfiorare i mille casi in 24 h. L’edizione odierna di “Il Fatto Quotidiano” fa il punto della situazione con le parole del virolgo, Andrea Crisanti. Di seguito le sue parole: «Serve un piano nazionale di sorveglianza per quadruplicare la nostra capacità di
effettuare tamponi. Questa attività strategica per il nostro Paese non può essere lasciata in balìa delle diverse impostazioni delle Regioni.La
sfida è creare sistema di sorveglianza attiva capillare e omogenea su tutto il territorio, che ci permetta di tornare a lavorare, a votare, ad andare a scuola. Per questo dobbiamo portare la nostra capacità giornaliera di effettuare tamponi dai 70 mila attuali a circa250-300 mila tamponi al giorno».
Crisanti ha continuato dicendo: «Abbiamo 30 giorni per far sì che le lezioni riprendano in sicurezza e 60 per evitare che questo inizio di
scuola si risolva in un drammatico fallimento. Se vogliamo provare a convivere con questo virus dobbiamo prepararci ad affrontare una situazione in cui coesistono un’alta trasmissione e intensi scambi sociali senza che questo porti al collasso del sistema sanitario. Questo comporta scelte strategiche che non si possono lasciare alla decisione del singolo, pur
bravo, governatore di Regione. Serve un massiccio investimento in attrezzature, in logistica e in personale e una presenza omogenea in tutte le regioni italiane. Ci aspettano appuntamenti cruciali: il rientro a scuola, le elezioni.
Il sistema non è in grado di gestirli?
Facciamo l’esempio delle elezioni: se vogliamo andare a votare in condizioni di relativa sicurezza dobbiamo fare il tampone ai presidenti di seggio e agli scrutatori, prima e dopo il voto. Moltiplichiamo per
le 60 mila sezioni elettorali italiane. Questa capacità di fare test deve aggiungersi a quella ordinaria, che anche durante il lockdown è sempre stata di circa 70mila tamponi al giorno, e che non possiamo rallentare o fermare perché rischiamo di farci sfuggire di mano l’epidemia. Questo vale anche per la scuola e per qualsiasi settore fondamentale della nostra vita
civile, se non vogliamo vivere barricati in casa. Aumentano i casi, ma gli ospedali non sono pieni di pazienti gravi. Cos’è cambiato?
Non è cambiato niente di sostanziale. Su questo
punto c’è un grande equivoco, perché i dati della sierologia sul Covid-19 pubblicati dall’Istat ci dicono che non esiste una grande differenza di distribuzione di casi per età dalla prima epidemia fine febbraio,
marzo e aprile. Il virus non è mutato e la malattia non
è cambiata. Oggi siamo di fronte a soggetti giovani che trasmettono l’infezione ma si ammalano in maniera molto lieve e quindi sfuggono all’osservazione del sistema sanitario. È proprio quello che è successo
nella prima parte dell’epidemia: in Veneto già a febbraio c’era il 3% di infetti nella prima comunità testata, Vo’Euganeo, tutti sostanzialmente asintomatici e dunque invisibili. Allora non eravamo in grado
di intercettarli, mentre adesso questa fetta di popolazione contagiata la troviamo con i tamponi. L’età mediana dei contagiati è scesa intorno ai
30 anni. Dal mio punto di vista l’età mediana non è realmente
cambiata. Secondo i dati ufficiali finora abbiamo 257 mila positivi diagnosticati con tampone, ma l’Istat ci dice che gli infetti sono stati circa 1,5 milioni di italiani, il che significa che ci sono stati più o meno
1,3 milioni di casi non diagnosticati. Tutti asintomatici o poco asintomatiche, c’erano allora come ci sono adesso, solo che adesso le vediamo. E stiamo riuscendo a proteggere le categorie a rischio, gli anziani sono più attenti, non facciamo entrare il virus negli ospedali e nelle Rsa. Il virus corre, ora come allora, grazie alla fascia di
popolazione più attiva, i giovani che hanno fitte relazioni sociali.
I casi reali sono ancora così gravemente sottostimati?
No, la sottostima c’è, ma ci avviciniamo di
più alla realtà. D’altra parte nelle fasi iniziali si facevano 5 mila tamponi al giorno, oggi circa 70 mila. La trasmissione per il
momento è ancora a focolaio e non diffusa, e dobbiamo evitare assolutamente che avvenga al di fuori di precise catene di contagio perché a quel punto l’epidemia ci sfugge. Il punto di non ritorno arriva
quando si supera la capacità di sorveglianza, quando
la richiesta di tamponi diventa superiore alla capacità di farli, i tempi di risposta si allungano, sfuggono al controllo ospedali e case di riposo e il sistema si sfilaccia. L’esposizione al virus delle categorie vulnerabili è la miccia che può far esplodere l’epidemia.
Quanto pagheremo questa “pazza estate”?
L’aumento dei contagi in vacanza è anche dovuto alla frammentazione delle strategie delle Regioni, ogni governatore fa da par suo badando a equilibri e
convenienze locali. Ma se una Regione sbaglia, l’errore si ripercuote su tutto il Paese. Sa cosa abbiamo fatto bene? La rimozione graduale delle misure, alla fine del lockdown, che ci ha regalato un mese di vantaggio rispetto agli altri Paesi europei. Le Regioni che hanno riaperto tutto subito sono quelle che ora stanno pagando il prezzo più alto in termini di contagi, come purtroppo sta accadendo al Veneto.