L’edizione odierna de “La Gazzetta dello Sport” si sofferma sul Catania, attraverso le parole di Guglielmo Ferro tra i firmatari di una lettera che vuole sensibilizzare i tifosi del Catania che verrà non è passato inosservato.
Il regista e figlio di Turi Ferro che ha diretto Tognazzi, D’Apporto, Girone, ma che ha anche progettato e realizzato lo spettacolo d’apertura dei Mondiali di scherma, gli eventi collegati all’Olimpiade di Londra nel 2012, spiega il suo rapporto con il calcio e con la città in un momento di vuoto calcistico e di attesa.
La sua adesione al progetto di partecipazione (senza cariche) alla vita calcistica cittadina è stato apprezzato.
«Prendiamo a cuore un pezzo importante di Catania e ripartiamo. Guai a fare trionfare il disinteresse».
Questa fase di pausa forzata pesa tanto ai tifosi, ma in generale a tutti i catanesi.
«Il calcio è un rifugio domenicale, un appuntamento che c’è sempre stato. Si mettono da parte i problemi. Il pallone segna un riscatto profondo e semplice al tempo stesso. L’assenza di agonismo si nota, eccome».
Ha seguito le ultime vicende prima del fallimento?
«Ed è stato avvilente. Questo stato di cose rispecchia il momento attuale che vive la nostra città. E’ una crisi pericolosa, non si riesce a vedere la luce. La vocazione commerciale, industriale di Catania sembra sparita. Ed è come se il mondo fosse andato dall’altra parte».
Nella lettera alla città non chiedete ruoli, ma interesse affinché si facciano bene i prossimi passi.
«Spero si possa accendere la miccia in un città che deve risolvere altri problemi. Il calcio deve rappresentare e responsabilizzare. Sentiamoci parte integrante di una comunità. Sarebbe un piccolo inizio».
I suoi ricordi legati al Catania sono tanti.
«Mi legano a papà che mi portava allo stadio. Un legame ancestrale. Ricordo il bagno di folla attorno a noi (Turi Ferro resta l’icona di una Catania orgogliosa e culturalmente elevata ndr). Quando la squadra vinceva i tifosi ci chiedevano di tornare per la gara successiva».
Chi ricorda in particolare?
«Il giorno in cui Fogli si ritirò. Poi ricordo il Catania di Massimino, Cantarutti, Morra. Ma c’erano anche giocatori non di primo livello che sono rimasti idoli».
A chi si riferisce?
«Ricordo il rigore generoso provocato da Barozzi contro la Lazio allora capolista nel 1982. Quell’attaccante diventò un mito tra i catanesi. Quando giocavo a pallone e qualcuno cadeva in area si evocava proprio Barozzi».
Il Catania delle ultime otto stagioni in A lo ha ammirato?
«Ovvio: Papu Gomez era già un fuoriclasse, ammiravo la forza di Bergessio, il primo splendido Maxi Lopez. Quel Catania giocava un calcio di livello assoluto. Se ero fuori per lavoro, non me lo perdevo alla tv».
L’amicizia tra suo padre, e Pietro Anastasi la custodisce gelosamente.
«Con orgoglio. Quando papà si recava a Milano o a Varese, Pietro mi portava in campo prima del fischio iniziale. Indossava la maglia della Juve. Ho le foto che mi fanno tornare a quei giorni. Il loro legame era fortissimo. Ma stiamo parlando di un’altra epoca, di un altro calcio. Papà andava fiero del suo concittadino che aveva raggiunto l’apice del successo con la Juve, con la Nazionale campione d’Europa nel 1968. Pietruzzu lo chiamava. Come i suoi tanti amici e tifosi. Altri tempi. Sembrano così lontani, adesso…».