L’edizione odierna de “Il Giornale di Sicilia” si sofferma sulla scomparsa di Totò Schillaci.
Nel giorno in cui il Cep ha perso il suo figlio più amato, il quartiere è animato come ogni mercoledì dalle bancarelle del mercatino. La casa in cui Totò Schillaci è nato si affaccia sulla piazza, e lì vive ancora suo padre. Intorno, volti familiari del quartiere si muovono, usciti dall’anonimato quotidiano per un’ultima volta, illuminati dal riflesso finale di chi da qui è partito per inseguire il sogno di tanti altri ragazzi.
Schillaci giocava in questa piazza, tra la chiesa di San Giovanni Apostolo e la scuola media, dove ora il vento muove sacchetti abbandonati. Gli abitanti ricordano quando, negli anni Settanta, si giocava con porte fatte di cappotti arrotolati o sassi: «Se hai più di 50 anni, hai sicuramente giocato con lui», raccontano i clienti e i fornai del panificio D’Arpa. Nonostante la fama, Schillaci non si è mai davvero allontanato dal Cep: «Anche quando era famoso, tornava sempre qui», ricorda Bartolo Ciresi, gestore della friggitoria del quartiere.
Per Schillaci, il Cep era stato una culla, più che un trampolino. Non solo il luogo delle sue prime partite, ma anche dove aveva vissuto i suoi primi amori, come quello con Rita, la sua prima moglie. «Era una persona umile, anche con tutto il suo successo. Quando tornava, era sempre uno di noi», ricorda Rosaria Caracausi, titolare della rosticceria della piazza.
Schillaci iniziò a giocare seriamente nell’Amat, una squadra amatoriale che aveva sede nella parte alta di via Leonardo da Vinci, all’ingresso di Borgo Nuovo. Giocò lì fino al 1982, in campionati che erano una sfida tra quartieri. Il campo dell’Amat oggi si chiama Louis Ribolla, e dista appena un paio di chilometri dal Cep. Dopo le notti magiche di Italia ’90, Schillaci trasformò quel campo in una scuola calcio che tuttora accoglie centinaia di bambini. «In dieci anni, oltre 300 ragazzi all’anno sono passati da qui. Totò non si vantava mai di ciò che era stato. A volte, metteva ancora i pantaloncini e scendeva in campo a giocare come se fosse uno di loro», racconta Salvino Pellingra.
Il campo, un tempo polveroso e pericoloso, era diventato per Schillaci un luogo di riscatto, un’opportunità per offrire ai giovani una possibilità migliore di quella che aveva avuto lui. Questo gli è stato riconosciuto anche dall’arcivescovo Corrado Lorefice, che ha dichiarato: «Palermo perde un simbolo di riscatto. Un ragazzo di umili origini che, nonostante gli ostacoli, è riuscito a farsi strada fino a diventare un’icona dello sport nazionale».
Schillaci, come un moderno Ulisse, tornava sempre in quel tratto di Palermo compreso tra il Cep e Borgo Nuovo, il luogo da cui era partito e che non ha mai dimenticato. Come tanti palermitani, aveva dimostrato che, con talento e determinazione, era possibile emergere, anche quando nessuno avrebbe scommesso su di lui.
Il campo Ribolla oggi è fermo, silenzioso, segnato da un mazzo di fiori all’ingresso. Il viso sorridente di Totò nel manifesto all’entrata sembra ancora invitare a giocare. «Era qui fino a quindici giorni fa», racconta Pellingra. «Si vedeva che stava male, ma rassicurava tutti. Non parlava mai della sua malattia».
Schillaci ha conquistato, solo alla fine, anche lo stadio Renzo Barbera, dove non era mai riuscito a giocare con la maglia rosanero, un sogno mai realizzato. Il presidente del Palermo, Dario Mirri, ricorda un episodio toccante: «Quando abbiamo rifondato la società, durante un’amichevole con le vecchie glorie, gli diedi il completino della squadra. Ma lui mi fermò e disse: “Ho la mia maglia del Palermo, sono un vero tifoso. Gioco con quella”. C’è una foto che racconta quella scena, l’ultimo atto d’amore verso la città di cui è stato il simbolo».
Totò Schillaci ha rappresentato Palermo meglio di chiunque altro, non dimenticando mai le sue radici, quelle che affondano tra il Cep e Borgo Nuovo.