Gazzetta dello Sport: “«Sacrifici, sudore, gol: ecco come Belotti è diventato campione»”

“Quando canta il Gallo, a Gorlago splende sempre il sole. Anche se il cielo continua a scaricare acqua e il buio rosicchia tempo alla luce. Questo paese di poco più di 5 mila anime all’imbocco della Val Cavallina, a una ventina di chilometri da Bergamo, è illuminato dalle prodezze del suo campione Andrea Belotti. Che qui è cresciuto (bene) e qui continua a tenere radici, anche se le visite si sono ridotte per colpa dei tanti impegni. Il Torino, la Nazionale. Allenamenti su allenamenti e una partita dietro l’altra. Ma è come se il bomber fosse sempre presente, perché è dalla sua terra, dalla sua gente, che succhia linfa vitale. Anche adesso che la sua carriera è decollata e che il Torino ha deciso di blindarlo con una clausola rescissoria mostruosa (94 milioni di euro). IL COVO Il quartier generale dei fan di Belotti è il Dany’s Bar, gestito da parenti. Appese alle pareti non ci sono le maglie di Beppe Savoldi, altro bomber nato da questi parti e consegnato ormai alla storia, ma quelle indossate da Andrea in A, Palermo da una parte e Torino dall’altra. I tavolini sono occupati da giocatori di carte, tifosi che poi nei fine settimana si riuniscono per assistere alle prodezze del loro beniamino. «Ogni volta è una battaglia tra chi vuole vedere l’Atalanta e chi Belotti con il Toro – spiegano i titolari Daniela e Luca –. Andrea non lo vediamo da agosto. Era deluso per non essere stato scelto da Conte per gli Europei, ci sperava, ma lo abbiamo consolato profetizzando una convocazione azzurra entro l’anno. E ora deve pagare lo champagne». Nella sala sul retro si gioca a boccette. «Facciamo i campionati provinciali e il nostro sponsor è proprio Andrea – dicono mostrando una maglietta griffata “Il Gallo” col numero 9 –, gioca anche suo fratello maggiore Manuel». Due gocce d’acqua. Ma farlo parlare è impossibile, così come i genitori Roberto e Laura. Andrea ha imposto il silenzio. L’esposizione mediatica per una famiglia non abituata ai riflettori – il papà fa i turni in una legatoria, la mamma era stiratrice in un’azienda, Manuel lavora come cuoco – sta cominciando a diventare eccessiva. COCCO Chi parla invece è nonna Maria, 76 anni, alla quale Belotti è legatissimo. «Ogni volta che segnava con l’AlbinoLeffe – racconta – gli davo la mancetta. Ora gli faccio i regali per il compleanno e a Natale, ma non mi perdo una sua partita, ci sarò anche sabato, mi porta il suo procuratore Sergio Lancini. Se vedesse come esulto quando segna… Il calcio mi piace, andavo sempre “all’Atalanta” con mio marito. Anche lui si chiamava Andrea, il suo nome è ancora sul campanello. Vorrei toglierlo, ma mio nipote me lo vieta. “Lascia tutto così”, dice. Per tanti anni io e Andrea abbiamo dormito assieme nel lettone, ora che è lontano mi chiama spesso per sapere se sto bene. E ogni tanto mi dice: nonna, so che hai qualcosa da dirmi. E io: è vero, ma te lo dirò al momento giusto. Cosa? È un segreto. Il presidente Cairo, abbracciandomi, mi ha detto: signora, ha tirato su un ragazzo stupendo. Però la mia paura è che la notorietà lo cambi». «Figuriamoci – interviene lo zio Giuseppe – è il solito ragazzotto di paese, terra terra, con la mentalità giusta del papà. E se non si è rovinato finora, non cambia più». FAME Il Belotti ormai uomo non è diverso dal Belotti bimbo e ragazzino. Lo conferma Massimiliano Bertocchi, ex team manager dell’AlbinoLeffe, la squadra che lo prese da piccolo e lo fece esordire tra i professionisti dopo aver dubitato delle sue qualità. «Io andavo a prendere i ragazzi delle giovanili a scuola e li accompagnavo al campo – racconta –. Andrea non solo era sempre puntuale, ma non diceva mai una parola fuori posto. Gli altri ridevano e scherzavano, lui restava in silenzio, sguardo dritto e concentrato. Il massimo dello stupore lo ebbi quando, dopo un’amichevole vinta con una squadra di dilettanti, gli altri erano euforici e urlanti e lui alzò la voce per chiedergli di calmarsi. Dopo la prima doppietta con la maglia del Palermo rispose così a un sms di complimenti: “Non mi sento arrivato,questo è solo l’inizio!”. Capito?». È questo il suo segreto: fame, costanza, umiltà. Come conferma Roberto Galletti, osservatore per il Chievo, che allenò Belotti negli Allievi dell’AlbinoLeffe ed evitò il suo taglio. «Andrea a 14 anni non era un talento, c’erano ragazzi più dotati e la società voleva puntare su di loro. Convinsi i dirigenti ad aspettare un po’, per premiare la sua volontà, la sua caparbietà. Qualità che gli hanno permesso di diventare uno dei migliori attaccanti italiani, l’uomo che ha acceso la fantasia. Nel suo caso si può dire che campioni non si nasce, ma si diventa. E della stessa pasta è Morosini, anche di lui a Brescia dicevano “sì, è bravino, però…” e anche lui con la stessa forza morale di Andrea si sta imponendo. Ho fatto gli esempi di due giocatori che ho allenato, il terzo è Balotelli, che invece ha fatto la strada opposta. Ma io spero di vederli tutti e tre ai Mondiali del 2018». Per Galletti l’altra arma di Belotti è la famiglia, «sana, senza grosse aspettative, mai pressante. A ogni compleanno di Andrea, i genitori arrivavano al campo con pane e salame e si faceva festa tutti assieme negli spogliatoi». L’ESORDIO Davanti alla casa della nonna abita Sandro Salvioni, che fece esordire Belotti in B con l’AlbinoLeffe il 10 marzo 2012 (dopo aver fatto debuttare il 15enne Balotelli in C con il Lumezzane). «I ragazzi di oggi non hanno la sua testa – dice – vogliono arrivare in alto senza sacrifici. Andrea, invece, proprio sui sacrifici ha costruito la sua fortuna. E con il lavoro è migliorato tantissimo. Decisi di convocarlo per la trasferta di Livorno. Il giovedì, dopo cena, uscii con la mia cagnolina e vidi arrivare Belotti che andava a dormire dalla nonna. Mi disse raggiante: “Mister, lo sa che mi hanno convocato con la prima squadra?”. “Andrea, guarda che sono io l’allenatore. Chi credi che ti abbia convocato, il presidente o il diesse?”. Lo feci esordire e segnò, anche se perdemmo 4­1. Poi sbagliai tutto. Avrei dovuto continuare a farlo giocare, invece per rispetto degli altri attaccanti non lo feci. Avevo paura che si pensasse che giocava perché era del mio paese. Avrebbe segnato altri gol. E io, forse, non sarei stato esonerato»”. Questo quanto si legge su “La Gazzetta dello Sport”.