“Un acceleratore di particelle. Un turbo. Un facilitatore. Quando la Cina ha deciso di fare sul serio nel calcio, ha chiamato lui. E Jorge Mendes ha risposto. Perché se c’è uno che sa fiutare un business, quello è il super agente portoghese. Non segue i flussi di denaro, contribuisce a crearli. Le prime voci di un contatto fra Mendes e la Cina sono datate giugno scorso. L’accordo è arrivato a gennaio: una quota minoritaria (il 20%, secondo la stampa portoghese) della Gestifute, la società di Mendes che nel 2015 ha mosso 400 milioni di euro sul calciomercato, è passata al fondo cinese Fosun, che fa parte della China Media Capital. Movimenti finanziari importanti, ma tutto sommato minori? Non esattamente, perché il nuovo partner in affari di Mendes è Guo Guangchan, undicesimo uomo più ricco della Cina. E perché quella firma a Shanghai è stata il «turbo» innestato nel motore del calcio della Repubblica Popolare. I risultati, oggi, sono chiari, e hanno i nomi di Jackson Martinez, Alex Teixeira, Ramires, Gervinho, Guarin, probabilmente Lavezzi. Nessuno di loro è direttamente un assistito di Mendes, nel loro (e non solo nel loro) approdo in Cina c’è la mano di Jorge, che non a caso sorride a 32 denti nella foto ricordo dell’attaccante colombiano con i nuovi «padroni» del Guangzhou Evergrande. Se lo sport si fonde con il business Mendes aiuta, ma la prima spinta arriva ancora da piani più alti: la passione del presidente cinese Xi Jinping per il pallone è ormai nota. Il selfie con Aguero, durante una visita all’Academy del Manchester City (in cui la CMC, peraltro, ha investito 358 milioni di euro), l’ha ricordata a tutti. Il progetto è quello di ospitare un Mondiale (nel 2026?), e di creare una nazionale che possa giocarselo: quindi calcio nelle scuole, 50 mila campi in tutto il paese, formazione di tecnici. Ma quello che pesa, davvero, è un progetto economico, legato al discorso più ampio della creazione di un mercato in patria. Con un Pil che cresce del 6% (la metà rispetto a un lustro fa) e un export difficilmente incrementabile, la sostenibilità dell’economia di Pechino passa per la creazione di una domanda interna. Anche nello sport. L’obiettivo governativo è di un giro d’affari interno di 760 miliardi di euro entro il 2025: ambizioso, visto che si stima che l’intera economia «sportiva» mondiale muova 350 miliardi, oggi. In questo contesto, creare un campionato di calcio che rivaleggi con quelli europei (ci si è mossi già sul basket) è un primo importante passo. Così tre delle sedici squadre del campionato maggiore hanno cambiato proprietà negli ultimi mesi: gli acquirenti sono colossi industriali, immobiliari o delle nuove tecnologie. I mezzi economici sono praticamente illimitati, i tecnici sono quasi tutti stranieri, il principale problema è convincere i giocatori a finire «fuori dai radar». Ci stanno riuscendo: nel mercato invernale, aperto in Cina fino al 26 febbraio, la Super League ha speso più di ogni altra lega, Premier compresa (269 milioni a 247). Segue l’Italia (86), la quarta lega è addirittura la seconda serie cinese (49). Le aziende investono per un duplice motivo: politico, per quelle a partecipazione statale(l’Evergrande che fu di Lippi e conquistò la Champions asiatica è nato così); di visibilità, per quelle che puntano al mercato mondiale. E lo fanno sfruttando anche detrazioni fiscali, che arrivano anche al 15-20% (per spese nello sport) per alcune aziende individuate dallo stato. Le dimensioni del cambiamento, anche solo a guardare i nomi, sono enormi. Siamo passati, con tutto il rispetto, da Anelka a fine carriera ad Alex Teixeira : 26 anni, 26 gol in 26 gare con lo Shakhtar Donetsk in metà stagione e corte del Liverpool rifiutata. Fame di pallone e soldi per comprarlo Un indizio di ciò che stava succedendo, se non vi bastava Mendes, era arrivato a ottobre. Allora la Ti’ao Power si era aggiudicata i diritti televisivi della Chinese Super League dei prossimi 5 anni per 1,2 miliardi di euro: 8 miliardi di yuan, a salire. Per il primo biennio un miliardo di yuan, i diritti del 2014 erano stati venduti a 80 milioni. La Ti’ao fa parte della China Media Capital, di cui fa parte anche il fondo Fosun, che si è comprato parte della Gestifute: non per niente si chiamano scatole cinesi… A chi, allora, faceva obiezioni sul prezzo pagato, rispondevano: «È un progetto a lunga scadenza». Insomma, fanno sul serio, come hanno imparato prima in Australia (mezza nazionale gioca in Cina) e poi in Brasile (dove hanno praticamente smontato i campioni del Corinthians per rimontarli fra Pechino e Tianjin). Nella Repubblica Popolare, dove il 20-30% della popolazione ama il pallone, gli stadi sono moderni e spesso pieni: 22 mila presenze di media (+17% rispetto al 2014), e ancora non erano arrivate le star. La resistenza dei giocatori di medio-alto livello ad abbandonare certezze per destinazioni esotiche e «difficili» è stata vinta a suon di milioni. Asamoah Gyan, allo Shanghai SIPG da luglio, ha firmato per due stagioni, per 14,2 milioni l’anno: paga la società che gestisce il porto locale, il più grande del mondo. Ramires, per lasciare il Chelsea, riceverà un bonifico da 54 milioni in 4 anni. La pioggia di soldi ha fatto esplodere il mercato, anche dei giocatori locali: 6 cinesi devono essere in campo per regolamento. E così l’Hebei Fortune ha pagato oltre 8 milioni di euro per Nian Jiang, ala che non è nemmeno titolare fisso in una nazionale che si attesta al 93° posto nel ranking Fifa, fra Botswana e Isole Far Oer. Arsene Wenger, che prima doveva preoccuparsi solo dei soldi russi e arabi di Chelsea e City, è stato il primo a lanciare l’allarme: «L’Europa dovrebbe preoccuparsi. La Cina ha i mezzi economici per saccheggiarci»”. Questo è quanto si legge sull’edizione odierna de “La Gazzetta dello Sport”.