“Dove stavi andando, Antonio? Cosa cercavi per arrampicarti fin lassù, in cima alla panchina? Al gol di Pellè il c.t. si era fatto calciatore: non per scavalcare un cartellone a bordo campo ma il tetto della sua «casa», dopo essere stato sempre sull’uscio. Senza mai sedersi, senza mai fermarsi. Con la pioggia: impermeabile e cappellino, mentre Del Bosque se ne stava seduto ad aspettare il suo kway rosso. Con il sole: corde vocali torturate e la giacca strapazzata in quel perpetuo schizzare qua e là. Un animale da campo, «così mi hanno definito i miei calciatori ed è il motivo per cui anche in una serata così non sono pentito della scelta che ho fatto per il dopo Europeo. Io mi affeziono tanto al posto dove lavoro e a quelli con cui lo faccio, ma arriva un momento in cui ti rendi conto se ti permettono di fare quello che vuoi. L’Italia mi resta nel cuore e mi auguro un giorno di tornare: le emozioni che dà questa panchina non le dà nessuna partita». COME UN JOYSTICK Dove andavi, Antonio? Su e giù, sinistra e destra, avanti e indietro. Un aratro dell’area tecnica: «La partita devo giocarla anch’io: un giorno il preparatore atletico mi ha proposto di mettere un gps per misurare quanti chilometri faccio e a che intensità». Il joystick di una squadra trasformata in playstation: teleguidata da fuori dopo esserle entrato dentro. «Per fare le imprese il primo a crederci deve essere l’allenatore, e poi lavorare è un verbo che non tradisce mai: noi lavoriamo da un mese per stupire, stasera un po’ ci siamo riusciti». MOGLIE E FIGLIA Cosa cercava Antonio, aggrappato alla panchina? Sua moglie e sua figlia, e subito dopo i suoi giocatori: abbracciati tutti, uno per uno, prima di spingerli verso i tifosi «che ora spero siano orgogliosi di loro: è la cosa che mi interessa di più, anche più del risultato». Una notte per fare giustizia più di vent’anni dopo l’ultima eliminazione della Spagna in un Europeo o un Mondiale. Era il ’94, negli Usa, e in campo c’era ancora lui: «Ogni tanto tocca anche a noi gioire. Questa era una partita senza domani: per loro non c’è, per noi sì». C’è perché «sapevo che questa squadra ha dentro qualcosa di importante. E l’avevo detto prima, non dopo: dirlo dopo è troppo facile». C’è perché «ho cercato di fare una battaglia per far capire certe cose: l’unica strada era provare a essere un club e non una selezione, non abbiamo abbastanza talenti per potercelo permettere. Oggi siamo una squadra, in questo Europeo lo siamo sempre stati». BRAVO XAVI C’è perché ieri l’Italia ha avuto anche lo stesso possesso palla della Spagna a fine primo tempo, per esempio e non è proprio una cosa da tutti i giorni: «Abbiamo dimostrato che il nostro calcio non è solo catenaccio, ma chi mi conosce sa che io insegno a giocare a calcio, non a difendermi. Xavi ha detto che siamo un po’ Atletico Madrid e un po’ Barcellona: è la conferma che chi gioca a calcio capisce le cose, e cosa c’è dietro le cose». C’è perché «questa vittoria può essere importante anche per la nostra autostima, anche in vista delle qualificazioni mondiali. Ma se aumenta l’autostima non deve venir meno la sete di stupire e di far parlare». DE ROSSI E CANDREVA Stupire: il verbo perfetto per chi deve affrontare la Germania. «La squadra più forte dell’Europeo. E se qualcuno l’avesse dimenticato, veniamo da una sconfitta per 41 (amichevole di marzo) che aveva fatto scendere la fiducia molto in basso. Se quella di oggi è stata un’impresa, sabato sarà un’impresa titanica. Lo straordinario non basterà: servirà il superstraordinario, trovare ancora qualcosa di più dentro di noi. Con un giorno di riposo in meno e delle assenze da affrontare». Il recupero di Candreva è difficile, quello di De Rossi «da valutare: ma giocherà solo se recuperato al 120% e visto che mancherà pure Thiago Motta, nel frattempo dovrò trovare anche altre soluzioni, adattate». E’ il suo destino, e non da ieri”. Questo quanto si legge sull’edizione odierna de “La Gazzetta dello Sport”.