Il magazine “Sportweek” de “La Gazzetta dello Sport” ha realizzato una lunga intervista a Tommaso Fumagalli, calciatore del Como, il quale si è espresso sul campionato di B, ma non solo.
Un anno e mezzo fa «ero deciso a mollare tutto. In D non giocavo e a fine stagione volevo appendere gli scarpini al chiodo. A mamma e papà lo avevo già detto, anche a qualche amico. “Basta – pensavo –, inutile continuare a insistere. Il calcio non fa per me, vado a lavorare». Ero convinto che il mio percorso fosse finito, e invece eccomi qua”. Per Tommaso Fumagalli, 24 anni da Bellinzago Lombardo (3.800 anime sul naviglio Martesana) il qui e ora vuol dire Serie A. Conquistata sul campo con la maglia del Como di Fabregas, che a gennaio lo aveva prelevato dalla Giana Erminio in Serie C, capocannoniere del Girone A con 12 reti nei suoi primi sei mesi da pro’. E pensare che solo un anno fa, proprio con la squadra di Gorgonzola, era ancora in Serie D. Dai dilettanti all’olimpo del pallone, giocando sempre, in tutte le categorie. Due promozioni sul campo e una – per meriti – via mercato. La Serie A lo attende, lui spera in una riconferma. I sogni a volte si avverano e la storia di Fumagalli ne è la più chiara dimostrazione.
Partiamo dalla fine. Minuto 62 di Como–Cosenza, ultima giornata di B, lariani sotto 1-0. Esce Gabrielloni, entra Fumagalli. Cosa ricordi di quel momento?
«Le parole di Fabregas: “Oggi la risolvi tu”, continuava a ripetermi. Purtroppo non sono riuscito a dargli questa soddisfazione ma è andata comunque bene (Como promosso grazie all’1-1 e alla concomitante sconfitta del Venezia a La Spezia). A fine partita abbiamo dovuto attendere qualche minuto, poi ho visto i fuochi d’artificio sul Lago e ho capito: ce l’avevamo fatta».
Qual è la tua squadra del cuore?
«L’Inter. Mio padre Paolo mi ha sempre portato in Curva Nord a San Siro. Ora, per ovvi motivi, non ci posso più andare, ma fino a qualche mese fa mi sentivo soprattutto un tifoso. Sono uno di loro, per questo li capisco…».
In che senso?
«Andare a Catanzaro, come nel caso di un tifoso del Como, per seguire la tua squadra, vuol dire mettere in conto un sacco di spese: il pullman o l’aereo, il biglietto della partita, il cibo e magari anche l’alloggio. Sono sforzi economici importanti e un calciatore deve essere consapevole anche di questo. Poi è ovvio che non si possa sempre vincere, ma l’impegno non deve mancare mai, anche solo per una questione di rispetto».
Tu che le hai viste quasi tutte, che differenze trovi tra le diverse categorie?
«In Terza, dove ho giocato con la Nuova Frontiera, è solo divertimento. Magari ti dicono anche che l’obiettivo sono i playoff, però se perdi la pizza te la vai a mangiare comunque. Dalla D, invece, le sconfitte iniziano a pesare, perché le società ti pagano e devi essere performante».
E in campo?
«La velocità, il ritmo, il tempo a disposizione per girarti e tirare. La tattica: in Serie D puoi permetterti di non fare determinate cose, in C devi iniziare a farle, in B e immagino in A non devi sbagliare nulla. E poi più sali, più la porta si fa piccola. Per la maggior bravura dei difensori e perché ritrovarsi davanti al portiere con migliaia di persone che ti guardano non è come quando a vederti venivano solo i tuoi amici. Alla Giana c’erano 400 persone, a Como ce ne sono ottomila e in trasferta quest’anno è capitato anche che ce ne fossero trentamila…».
Lo stadio che ti ha più impressionato?
«Marassi, contro la Samp. Al gol di Borini c’è stato un boato che dal campo mi ha fatto sentire davvero piccolo».