L’edizione odierna de “La Gazzetta dello Sport” si sofferma sul Bari e riporta un’intervista a Frattali.
Uno stakanovista della porta, non a caso è l’unico calciatore di Mignani a non aver saltato nemmeno un secondo di questo campionato. Si è confidato a cuore aperto. Partendo da un elogio senza confini al resto della compagnia. «Tanti uomini ci stanno dando una grossa mano – attacca il navigato portiere biancorosso -, a partire dal mister e dal direttore. E poi la scorsa estate è arrivata gente forte, esperta, con un carattere vincente. Un’alchimia giusta, funzionale a raggiungere gli obiettivi auspicati».
Si spiega così anche l’ottima annata di Frattali? Almeno a Bari, non era mai stato così continuo e determinante.
«Quando hai gente in gamba davanti, il tuo compito si fa più agevole. Ovvio, ha un peso anche la parte del diretto interessato».
Cosa c’è di speciale in questo Bari rispetto alle due precedenti stagioni di Serie C?
«Nel calcio ti aiutano a crescere le delusioni, piuttosto che i risultati positivi. Ebbene, quanto è successo negli anni scorsi ci ha dato una marcia in più. Sul piano della tempra. Penso che si veda, anche da fuori. Gli stessi avversari hanno rispetto e timore di questo Bari».
Ora bisogna realizzare la seconda metà dell’opera. Naturalmente quando si potrà ripartire. Cosa occorrerà in più?
«Le nostre capacità devono coinvolgere tutta la città. Tutti insieme saremo sempre più forti, per arrivare dove vogliamo».
Vive a Bari da un pezzo con la sua famiglia, moglie e due splendide bimbe. Che cosa pensa dei suoi… concittadini?
«Stiamo davvero bene. Bari è una città diversa da quelle in cui avevo vissuto prima. Sarà per il clima, non so. Ma ho trovato gente socievole, allegra, disponibile. Ecco, mi sento un po’ a disagio solo quando mi chiedono un autografo o un selfie. Mi creano imbarazzo, sono uno come gli altri. Molto tranquillo, riservato, ma anche educato con tutti. Prima di aprirmi, però, devo essere sicuro al 100% della sincerità di un rapporto».
Molto tranquillo? Come la mettiamo con la storia che i portieri sono considerati un po’ matti?
«Devi avere qualcosa di diverso dagli altri. Questo, sì. In porta sei solo, non puoi distrarti un attimo. Se sbagli, quasi sempre procuri un gol. Occorre avere una personalità spiccata».
Perché e quando ha deciso di sistemarsi tra i pali?
«A 5 anni e mezzo, fin dal secondo allenamento. Mia madre voleva che giocassi in attacco. Non toccai una palla, anzi ne bloccai una con le mani. Mi mandarono subito in porta. Ma è pur vero che ho sempre amato i guanti. Avrei voluto fare il pugile, amavo i film di Rocky. I miei genitori mi proibirono di salire sul ring. I guanti, però, li ho indossati lo stesso. In campo».
Anche Ciro Polito è stato un portiere. Un vantaggio o cosa?
«Non è semplice giudicare il nostro operato, quando non hai fatto questo mestiere. Con il direttore so bene che, quando esaminiamo insieme una situazione di gioco, è supportato dalla massima competenza per il ruolo. È uno stimolo in più. Ma parliamo molto più della squadra. Non mi ha mai fatto pesare il suo passato da portiere».
Ha pochi amici, veri. Uno, forse il più amico di tutti, lo ha perduto prematuramente. Se la sente di parlarne?
«Avevo un fratello, Piermario Morosini. Un uomo davvero speciale, sotto tutti i punti di vista. Avevamo giocato solo pochi mesi insieme, a Vicenza. Eppure tra noi si era creato un feeling fortissimo. Qualche giorno prima della disgrazia a Pescara, seguimmo insieme in tv il derby della capitale. Mi è rimasta quell’immagine davanti agli occhi».
Per averlo sempre con sè indossa la maglia di Morosini, sotto la casacca ufficiale di gara».
«Voglio ricordarlo sempre come merita. Lo farò, fino a quando giocherò».