L’ex rosanero Javier Pastore ha rilasciato una lunga intervista a “Ultimouomo.com” parlando in merito alla sua esperienza al Palermo.
A proposito: il mese scorso a Palermo ti ho incontrato all’evento per l’inaugurazione del centro sportivo, e sono rimasto colpito – anche se me lo aspettavo – dall’affetto con cui sei stato accolto. Anche dai più giovani, ragazzi che magari non erano neanche nati quando giocavi lì.
«È sempre speciale per me, e anche questo mi fa stare tranquillo pensando alla mia carriera. Avere la riconoscenza delle squadre per cui ho giocato, aver lasciato un bel ricordo e aver costruito un bel rapporto con i tifosi, con i proprietari, con la gente che ancora oggi lavora lì e si ricorda di me… vale più di qualsiasi cosa, davvero. Pensare a tutti quei momenti, adesso che non gioco da un anno, mi dà tanta soddisfazione, mi fa stare bene. E un po’ mi fa anche pensare: ho proprio bisogno di tornare, sapendo che in campo non posso più giocare come prima? Mi sembrerebbe un po’ di rovinare quello che ho fatto, che è stato bello se la gente lo ricorda in questo modo dopo 15 anni».
Un discorso che non vale solo per Palermo, vero?
«In ogni squadra in cui sono passato è rimasto un rapporto molto bello con la città e con i tifosi. Anche a Roma, dove purtroppo non sono stato neanche il 60% del giocatore di Parigi e Palermo, la gente è sempre stata incredibile con me. Sui media e sui social la gente si sfoga, a volte anche insultando i giocatori, ma io a questo non ho mai fatto caso. Di persona invece, mi è sempre arrivato tanto affetto, anche quando sono stato infortunato a lungo. Quando uscivo in centro a Roma, dove vivevo, per strada non c’è mai stato un tifoso che mi ha detto qualcosa di brutto, mai. Tutti sempre: “grande Flaco”, “che bello vederti giocare”, “quando torni che ti vogliamo”. Non era scontato, e anche per questo ho amato Roma e sono sempre contento di tornarci».
E Parigi, dove hai passato sette anni?
«Anche con il pubblico di Parigi mi sono sempre trovato bene, e loro con me. Forse perché sono stato il loro primo grande acquisto, forse per quello che ho fatto con la maglia del PSG, o forse per il mio stile di vita tranquillo e la mia personalità, il rapporto che si è creato con i tifosi è stato fantastico. E poi ci sono rimasto sette anni, quindi si è creato davvero un legame forte e sono contento di questo più di ogni altra cosa».
D’altronde Ángel Cappa [allenatore dell’Huracan quando ci giocava Javier Pastore, nda] ci aveva avvertito quindici anni fa, dicendo che «Pastore è il giocatore che si fa amare dai tifosi e che li trascina allo stadio». In Italia hai ricevuto standing ovation anche in trasferta, per dire.
«Quella a Firenze non la posso scordare, mi ha applaudito davvero tutto lo stadio, un’esperienza incredibile. E Delio Rossi mi ha cambiato proprio perché immaginava che sarebbe successa una cosa simile, io invece non me l’aspettavo per niente, anche se avevo fatto un gol e avevo giocato una partita veramente completa, bella, con tante giocate di qualità, qualche colpo di tacco. Quando sono uscito e ho visto i tifosi avversari alzarsi in piedi per me, è stato davvero emozionante. Ancora oggi mi viene la pelle d’oca se ci penso».
Ma è una scelta diventare così belli da vedere, o con la tua eleganza si nasce?
«Quello che ti posso dire è che io ho sempre voluto diventare questo tipo di giocatore, mi sono sempre visto così. Quando entri in campo ci sono persone che ti guardano, tante o poche, e io ho sempre pensato: voglio far arrivare qualcosa alla gente, fare giocate che diano emozioni, gioia. Comunque ho sempre giocato così, e ho sempre saputo che quella era la mia forza, anche perché fino a 16 anni sono sempre stato il più basso. Ero magro e molto più basso degli altri, dovevo adattarmi».
Ah sì?
«Sì, dopo i 16 anni sono cresciuto tantissimo, ma prima ero piccolo. Comunque ero sempre tra i migliori quando giocavo nel mio quartiere, poi nei campionati giovanili, spesso con ragazzi più grandi, e il mio modo di giocare un po’ è rimasto quello. Vedevo che più provavo a seguire quello stile di gioco, e più facevo la differenza, allora ho cominciato a viverla come una virtù, a lavorare per migliorare e farne la mia forza. Ero rapido, mi muovevo veloce, saltavo l’uomo, facevo i tunnel, quelle cose… sentivo che era un mio punto di forza, e faceva impazzire gli avversari. A volte li faceva anche espellere. Insomma, è sempre stato normale per me giocare in modo un po’ diverso dagli altri, ed è quello che mi ha sempre reso felice in campo».
C’è un rovescio della medaglia?
«Certo. A Palermo ho sempre detto che alla gente piaceva il mio modo di giocare, sì, ma quando non vedeva sforzo difensivo, sacrificio, quando perdevo palla cercando giocate difficili, mi veniva fatto notare».
In molti avranno provato a “normalizzarti”.
«Sì, assolutamente, soprattutto in Argentina. Alcuni allenatori mi dicevano di non cercare il tunnel in partita, ad esempio. Ma perché no, è una forma di dribblare l’avversario, perché devo fare tutto il giro con la palla, se con un tocco posso superarlo? Più andavo avanti nelle giovanili, e più mi sentivo dire: così non giocherai mai, così in Europa non ci arrivi, la Nazionale, questo, quello. Beh, alla fine ho giocato pure in Nazionale facendo tunnel! [ride] Sentirmi dire quelle cose mi dava ogni volta più forza, pensavo: vedrai, vedrai…».
Sono curioso di sapere che effetto ti fa sentire oggi queste parole, che ho letto sul Guardian, in un articolo del 2009: “Javier è il figlio che ogni madre desidera e il fidanzato che ogni ragazza vorrebbe”.
«Sì, è così dai… sì [ride]. In realtà è una cosa di cui sono contento, perché rispecchia come sono fatto. Mi è successo più o meno sempre di creare da subito un bel rapporto, quando andavo in società nuove; quando mi compravano e avevano a che fare con me nei primi tempi, vedevano un ragazzo tranquillo, sereno, umile, riservato, e non se l’aspettavano, credo. Quando sono arrivato dall’Argentina ero giovane, forse si aspettavano una persona diversa. E lo stesso quando sono andato a Parigi: ero l’acquisto più caro nella storia del club, i giornalisti non si aspettavano che io facessi interviste, che mi fermassi a parlare e fare foto con i tifosi, che li salutassi in tribuna. A me veniva naturale, ho sempre sentito una grande gratitudine verso i tifosi: alla fine, se uno fa questo lavoro è grazie alla loro passione».